La battuta è diventata celebre. È di Mark Fisher. Sta nell’ultimo libro Realismo capitalista, che ci restituisce il referto di una radiografia del presente, mostrandoci solo le evidenze di un corpo in putrefazione. Ogni slancio dell’uomo finisce nel burrone dove questo sistema, che da economico è diventato esistenziale, getta i nostri desideri dopo averli mangiati. Scarti di desideri. Nel burrone di un esproprio di futuro. Dice Fischer che è più facile immaginarsi la fine del mondo che la fine del capitalismo.

Che muoviamo i piedi tra le macerie è una di quelle verità che stanno smettendo di essere dette. Perché sono ovvie, come il fatto che al mattino nasce il giorno nuovo. La Galleria nazionale d’arte moderna l’ha pronunciata con una mostra evento che non è materia espositiva inerte ma progetto onirico in essere, polifonia di riflessioni, di modi di riflessione. La mostra si chiama “Ilmondoinfine: vivere tra le rovine”. Si muove a partire dalla dialettica che innesta nel titolo. Ibrido di senso che domanda di essere sciolto nella libertà delle possibili soluzioni: è un mondo in fine oppure è un mondo, infine?. È l’antropocene con cui abbiamo mangiato il pianeta o la resurrezione di una natura maestra dalla quale imparare che siamo con gli altri nell’«immersione» dentro un ecosistema del quale non siamo né il fulcro né il centro. Solo parti di un tutto che respira di contemplazione ed espira di azione. Interdipendenti, a prescindere dalla volontà di esserlo.

Chi decide di usare questi giorni d’esplorazione, che la curatrice Ilaria Bussoni, assieme a Serena Soccio, Eva Macali, Donatello Fumarola, Simone Ferrari, ha cucito con l’ago nobile di una intelligenza collettiva che si apre a strade nuove, a nuove parole, nuovi modi di pensare, nuovi sguardi, avrà a disposizione parole, visioni, opere, musica, danza per domandarsi e domandare, dirsi e dire quale è la postura più nobile per «vivere nelle rovine». Quale opportunità ci danno queste rovine? Può la sensazione di una apocalisse diventare un altro big bang generatore di nuove infinite possibilità di riabitare questo passare nel tempo e nello spazio che è l’esistere?

Ogni opera è una spigolatura di posizione. Un arredo nella stanza di questo interrogare. Gli acquarelli astratti di Emanuele Becheri, in cui le macchie ricordano le irregolari chiazze dell’acqua. Acqua su finestra, opera in movimento perenne, disfacimento e ricomposizione. La bellezza che dona l’oggetto riassemblato, non più rovina ma nuovo passo d’esistenza, nella tavola imbandita, da Chiara Bettazzi, di un passato che si toglie il cappotto del tempo. Le piante che occupano i resti degli abusi edilizi in quel documentato farsi istituzione del paesaggio, fotografato da Gigi Cifali. O il senso di una inesauribile riserva di vita che sono i rizomi disegnati da Rosetta S. Elkin, metafisico formarsi di un altro nuovo, un nuovo ancora, un nuovo infine. E le rovine che si fanno monumento all’eterno nelle opere di Christoph Keller, dove l’accostamento alle foglie giganti ci fa ripetere quello che ha scritto di questa mostra Stefania Consigliere: «trovare la possibilità, sempre fragile e ambigua, della contromemoria». Evocativo sempre, Gian Maria Tosatti imprigiona in una teca la polvere sugli eventi, «sostanza della storia», per trovare «la lucidità e la pazienza di risultare ancora presenti nel presente». Sembra la messa in atto di una intuizione che si trova nel bel libro di Emanuele Coccia, La vita delle piante, l’installazione di Eva Macali che in una camera esplora «l’essere nell’ambiente», che ci attraversa tutti come la vibrazione che fende l’aria. O «come l’acqua vive nei pesci».

Sono un innesto di nuovo senso le tavole rotonde, come quella che ha riempito le stanze della Galleria Nazionale di Roma con le visioni dell’architetto del paesaggio Franco Zagari: nei suoi giardini la possibilità inesplorata di «un arredo cosmico» per le città devastate. E sono bulbi di intentati accessi emotivi «le letture e i commenti arborei sui paesaggi dell’Orlando furioso», o le riflessioni su cosa sia l’antropocene. Suggerisce Gianfranco Pellegrino, che su questo anima un dibattito a partire da un suo libro scritto con Marcello di Paola (Nell’Antropocene, DeriveApprodi 2018), non fine del mondo ma «fine di un mondo, che non ha nulla di patologico. È anzi una esperienza salutare». Rigenerativa. La nascita di una nuova cultura. Orchestre che ululano alla luna. E film per confezionare nuovi sguardi, il teatro per abitarli, le performance per danzarli. Un intervento di Paolo Virno, che da anni scrive di mondanità o uso della vita, o come vivere da viventi. Una riflessione corale sulla rovina delle rovine, la barbarie delle migrazioni respinte, lo specchio più feroce di una decadenza dello spirito. Uno specchio nel quale diventiamo noi a dover essere salvati. Perché lasciar morire uomini in mare è essere già una fine. Stagliati nell’orizzonte di un mare, che non conscendo i confini, è il solo possibile nuovo inizio.