In questi ultimi anni il Salone di Torino sembra proporsi sempre meno come oggetto-contenitore che come soggetto attivo, vero e proprio organismo in grado di agire e non solo di essere agito, di parlare e non solo essere parlato, di percorrere strade e non solo essere percorso. Un organismo senziente e pensante capace di uscire dalla gabbia spazio-temporale della settimana al Lingotto per riverberarsi lungo un tempo indefinito come una nebulosa indistinta di echi, rimandi, legami.
Quest’anno, già da qualche mese, l’organismo-salone ha iniziato a muovere i suoi passi. Massimo Bray, Nicola Lagioia e i consulenti culturali della manifestazione hanno ideato un gioco: cinque domande, cinque interrogazioni aperte sono state poste a un ampio numero di intellettuali del nostro tempo che hanno risposto con testi, immagini, registrazioni audio, video, consegnando una serie di tracce sovrapposte su cui il Salone, nei giorni della fiera, costruirà gli snodi del proprio discorso. Le cinque domande non riguardano tanto la letteratura come forma artistica, quanto l’uomo come dato antropologico. La soggettività, il male, il potere, il rapporto con la morte, la spiritualità, la scienza, la libertà, sono temi su cui ogni giorno ognuno di noi è chiamato a riflettere e di cui la letteratura non è che una delle tante, possibili, forme di risposta.
La Francia è il paese ospite del Salone di quest’anno. Sembra allora essere quasi naturale, nel presentarla, giocare al gioco delle domande, fare come se una nazione intera e la sua cultura fossero una mente collettiva, un organismo senziente (non troppo diverso dall’organismo-Salone che come una sfinge all’ingresso di Tebe pone domande ai suoi visitatori) chiamato a rispondere con i suoi autori più significativi presenti al Lingotto e a disegnare così l’immagine del proprio profilo contemporaneo.

CHI VOGLIO ESSERE? Alla prima delle cinque domande, la più difficile dal momento che per dire chi voglio essere devo prima sapere chi sono, non può che rispondere l’autore che dell’identità – e della sua disgregazione – ha fatto la propria cifra stilistica: Antoine Volodine. Volodine è probabilmente il più indefinibile tra gli scrittori francesi contemporanei. Non ha un nome, un’identità stabile (Elli Kronauer, Manuela Draeger, Lutz Bassmann sono solo alcuni tra gli eteronimi con cui ha pubblicato i suoi testi). Non ha una forma autoriale definita, impossibile a contenersi in una precisa corrente letteraria, o meglio, rappresentata da una corrente letteraria, il post-esotismo, che Volodine si è creato da solo, dando vita a liste di autori e titoli sospesi tra realtà storica e invenzione, generi letterari inesistenti come il romånso, il narrat, la shaggå, e soprattutto dando vita a una lingua accartocciata, in continuo slittamento di senso (una lingua-enigma come potrà raccontare insieme a lui nei prossimi giorni Anna D’Elia, la sua traduttrice italiana per 66thand2nd).
Nei mondi distopici di Volodine, nelle sue prigioni fatiscenti, nei materassi inzuppati di urina delle sue città marce, l’io scivola continuamente da un nome all’altro, facendosi «noi» indistinto, alterità costante e costitutiva dell’uomo a sé stesso. «La prima persona singolare, scrive, serve ad accompagnare l’altrui voce, non significa niente di più».

A COSA MI SERVE UN NEMICO? Dopo la radicalità siderale dell’identità e del suo disconoscimento la seconda domanda indaga il tempo storico del nemico, la natura umanissima del male. A questo sembra rispondere perfettamente Oliver Guez con il libro che presenterà a Torino, La scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza), «romanzo di non-fiction» sugli ultimi trent’anni di vita sotto falso nome in America Latina del medico-macellaio di Auschwitz.
Guez ricostruisce con accanimento filologico la comunità nazista argentina sotto il peronismo, creando un romanzo disturbante, la narrazione di una vita sospesa in un mondo artefatto e nostalgico congelato agli anni Trenta e poi via via sempre più persa nella povertà di un corpo che si sfalda, negli acciacchi degli anziani, nel dover riparare prima in Paraguay e poi in Brasile, nella paura di essere scoperto, nella speranza delirante di poter far tornare tutto come prima. Nel testo due sono le banalità del male. La banalità della vita di tutti i giorni ad Auschwitz, la moglie, i bagni nel fiume, le cene romantiche accanto alle baracche, ai corpi seviziati, all’odore di cloroformio. La banalità della sua esistenza di adesso, i giorni sempre uguali, l’assenza di un nemico da umiliare che toglie sostanza alla sua vita stessa, restituendola a un nulla fatto di camicie fiorate e di passeggiate sulla spiaggia di Berioga. Senza il suo dovere di soldato Mengele sembra essere un cencio vuoto. Senza il suo nemico, di fatto, non è niente.

A CHI APPARTIENE IL MONDO? Ai mediocri. Alain Deneault, filosofo politico canadese, potrebbe rispondere così, al Lingotto, alla domanda che più di tutte indaga il potere e le sue diverse articolazioni. Nei suoi scritti degli ultimi anni (confluiti poi in Mediocrazia, pubblicato da poco da Neri Pozza), Deneault ha fatto una campionatura di tutti quegli standard professionali, protocolli di ricerca, procedimenti di verifica attraverso cui le imprese contemporanee (ma non solo, basti pensare alla nuova università post-riforme) strutturano la propria governance. Nella sua analisi delle società economico-politiche occidentali c’è stata negli ultimi anni una costante parcellizzazione del gesto facendo sì che «i mestieri cedano sempre più il posto a una serie di funzioni, le pratiche diventino tecniche, e la competenza un’esecuzione pura e semplice». La corporate religion, la religione d’impresa porta alla creazione di tecnici – tecnici delle aziende, tecnici della cultura, tecnici della politica – formati per occupare il punto di mezzo, il centro, la tappa intermedia di un procedimento senza aspirare alla comprensione globale e articolata dell’intero processo. Il medio (il «compromesso», il «giusto centro»), in sintesi, è il valore di scambio del nuovo millennio.

DOVE MI PORTANO spiritualità e scienza? Delphine De Vigan e Maylis de Kerangal si sono imposte al pubblico italiano negli scorsi anni con due testi Niente si oppone alla notte (Einaudi) e Riparare i viventi (Feltrinelli) in cui la morte biologica, letterale sparizione del corpo dalla superficie del mondo, ha aperto certamente una porta su questa doppia domanda, su questa doppia via. Ma la porta nei testi sembra rimanere, di fatto, socchiusa. O meglio, la risposta in questo caso sembra dirigere la punta acuminata della domanda (dove mi portano…?) verso la propria stessa fonte: l’uomo.

COSA VOGLIO DALL’ARTE: libertà o rivoluzione? Per quest’ultima domanda, non può che farsi avanti forse l’ospite più atteso per la Francia: Edgar Morin che a breve vedrà uscire in Italia, per Cortina editore, il suo ultimo libro Maggio 68. La breccia (e al cinquantennale del Maggio francese, tra l’altro, è dedicata l’intera sezione di approfondimento del Salone). Che cosa sono libertà e rivoluzione per Edgard Morin? Che cos’è stato il Maggio francese per lui che lo ha vissuto in prima persona? Una breccia, appunto. Un momento di forte problematizzazione dell’individualismo edonista della cultura industrializzata di quegli anni, un punto di lacerazione in cui hanno preso vita processi innovativi – parità di genere, difesa delle minoranze, coscienza ecologica, diritto alla felicità – che saranno poi irriducibili, in seguito, ad ogni tentativo di ridimensionamento.
Esperienza utopica, movimento rivoluzionario culturale ben prima che politico (Morin ha sempre preferito alla politicizzazione trozkista e maoista del movimento la cultura studentesca libertaria e comunitaria da cui ha preso avvio), il maggio francese è stato una vera e propria extase de l’histoire, uno di quei momenti di frattura in cui «la prosa della cronologia, l’oppressione del quotidiano si aprono per lasciare spazio al godimento».