Un film in stile anni ’70 per lo scontento dell’America che dato vita alle impennate di Bernie Sanders e Donald Trump. Se non fosse per la fotografia elettrica, iper-contemporanea di Matthew Libatique, Money Monster, il ritorno alla regia (e a Cannes) di Jodie Foster dopo The Beaver, sulla carta, potrebbe essere stato diretto, quarant’anni fa, da Sidney Lumet. Il fantasma del regista newyorkese aleggia infatti in modo evidente in questo film che rimanda sia a Quinto potere (1976) che a Il pomeriggio di un giorno da cani (1975). Insieme a Inside Man, di Spike Lee (2006), storia di un rapina/assedio dentro la cassaforte di una banca di Wall Street, dietro cui si nasconde qualcosa di più grosso, interpretato (oltre che da Denzel Washington) da Jodie Foster e fotografato, anche quello, da Libatique.

Dopo The Big Short, la serie Billions, e il devastante documentario di Charles Ferguson, Inside Job, Money Monster è senz’altro un attacco meno sofisticato e graffiante all’egemonia dell’uno percento e alla truffa organizzata della grande finanza. Dalla sua, l’approccio più tradizionale di Foster (insieme a George Clooney, protagonista ma anche produttore del film) ha il rifiuto di concedere anche la minima ombra di ammirazione, o di smalto, al personaggio che incarna il furto operato sugli americani da Wall Street.

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Walt Camby, il CEO di una nebulosa compagnia che, nella sceneggiatura di Alan Di Fiore, Jim Kouf e Jamie Linden, infligge ai suoi azionisti una perdita da 800 milioni di dollari, non è un genio degli algoritmi azionari o un visionario degli hedge fund, ma un banale ladro. E un vigliacco, dato che trascorre la maggior parte del film, nascosto da qualche parte in cielo, a bordo di uno dei suoi molteplici aerei privati.

Ancora dalla parte di Foster, ricordarci la forza d’urto che sta nello spettacolo di un poveraccio così disperato da irrompere in uno studio televisivo con due giubbotti bomba e una pistola, minacciando di far saltare tutto.

Lo studio televisivo in questione è quello di Lee Gates (Clooney), presentatore di un talk-show finanziario chiaramente ispirato a Jim Cramer, il conduttore del programma di CNBC, Mad Money. Animato dal fervore e dalla teatralità di un predicatore religioso anni novanta, (come Cramer) Gates dispensa ai suoi spettatori perle di saggezza finanziaria, suggerendo il titolo o l’azione ideale per moltiplicare i loro risparmi. Alternando cappelli da prestigiatore ad accappatoi da pugile, e servendosi di un arsenale di effetti sonori, grafici e filmati, Gates traduce «il gioco» della finanza nella febbricitante ritualità di un incontro di wrestling. La sua una formula così iperbolica e usurata, che la troupe anticipa ormai ogni sua mossa, e il fedele produttore Patty Fenn (Julia Roberts) ha accettato l’offerta di lavoro di un altro show, anche se non glielo ha ancora detto.

Un’ombra di barba e, al posto dell’acqua, una dose di vodka, per tradire l’idea che nemmeno lui si prenda più sul serio, Gates sta praticando la solita routine quando in studio si materializza un ragazzo pallido (Jack O’ Connell, l’atleta/soldato in Invincible di Angelina Jolie), che gli punta una pistola addosso. Patty blocca subito il feed ma, prevedibilmente, la vita (inutile, decideranno più tardi gli spettatori, chiamati a investire nella sua sopravvivenza) di Gates è legata al filo sottile della trasmissione live. E, in un battibaleno, siamo di nuovo in onda. La voce rassicurante del produttore che lo guida, Gates riprende il controllo della situazione –the show must go on. Si scopre così che l’intruso si chiama Kyle e ha perso tutto ciò che aveva (sessantamila dollari lasciatigli in eredità da sua madre) scommettendo su un’azione che Gates aveva definito «più sicura di un libretto di risparmi» e che è invece crollata inspiegabilmente.

Adesso Kyle, che ha portato con sé un giubbetto bomba per Gates e uno per Walt Camby che doveva essere ospite della puntata ma che non è arrivato, vuole delle spiegazioni. Mentre la diretta procede sempre più tesa, allargandosi a macchia d’olio sugli schermi di tutto il mondo, fuori dalla sede del network arriva anche sua moglie. Che è incinta, e non lo scongiura di arrendersi in nome del bambino che sta per arrivare, ma lo copre di miserie perché, oltre che un buono a nulla è anche un cretino. Passando dall’invidia («tu hai una famiglia, aspetti un figlio. Hai qualcosa per cui vivere. Te lo dice uno che sulla rubrica d’indirizzi, in testa agli altri, ha il numero di un servizio di escort») alla solidarietà (maschile) Gates decide di aiutare Kyle a capire cosa è successo. La diretta si sposta all’esterno, tra i canyon di grattacieli della downtown di Manhattan nella parte meno credibile del film, che si affretta verso un finale sbrigativo e blando. Per riacchiappare la nostra attenzione/emozione, per un attimo, con un’unica, breve, inquadratura, quando – conclusosi «il dramma»- l’operatore che ha ripreso tutto, appoggia la telecamera per terra. È puntata su di noi.