I problemi umani e imprenditoriali dell’Ilva sembrano all’improvviso accelerare il loro corso. I segnali sono più d’uno: era in scadenza il mandato dello scialbo commissario governativo Enrico Bondi, il cui ultimo atto è stato il varo di un indigeribile piano di sviluppo dell’azienda; Bondi viene sostituito ora da un altro dei soliti noti, Piero Gnudi, già amministratore delegato Enel, ministro con Monti, ultimo presidente dell’Iri, presente nel consiglio di alcune grandi imprese, nonché esponente di punta di Confindustria; intanto, Il Sole 24 Ore si interessa attivamente alla vicenda, forse per agitare le acque per conto degli industriali che vogliono entrare nella partita; il governo sembra anch’esso uscire dal letargo sulla questione con alcune mosse almeno in parte preoccupanti.

Il commissariamento

A suo tempo Bondi era stato nominato commissario all’Ilva con stringenti obiettivi da raggiungere sul piano ambientale, industriale e occupazionale. Per molto tempo non si è saputo che pochissimo di cosa stesse veramente succedendo a Taranto. Ora dal piano 2014-2020 apprendiamo che sul fronte ambientale non è stato fatto quasi nulla; nel 2013 sono stati spesi in tutto sulla questione 104 milioni di euro, mentre è previsto per i prossimi anni un esborso totale di meno di 1,5 miliardi. Ambienti esterni valutano come le cifre da mettere in campo dovrebbero essere molto più elevate. Così a Taranto si continua a morire, ma in silenzio. Tra l’altro, non si capisce cosa ci stia a fare nel ruolo di sub-commissario addetto alla questioni ambientali Edo Ronchi.

Intanto la produzione effettiva si è collocata in valore intorno ai 3,2 miliardi nel 2013, mentre nel 2008 i ricavi avevano raggiunto i 6,8 miliardi, ancora nel 2011 erano pari a 6,0 e nel 2012 a 4,2. Gli obiettivi per i prossimi anni sono indicati appena tra i 4,0 e i 5,0 miliardi di euro.

In totale i nuovi investimenti del gruppo da qui al 2020 si dovrebbero aggirare, secondo il vecchio commissario, sui 4,2 miliardi.

Da altre fonti apprendiamo che attualmente l’azienda perderebbe circa 80 milioni di euro al mese e che la situazione finanziaria si presenterebbe come drammatica, prossima al fallimento.

Sempre sul fronte finanziario il commissario prevedeva per il periodo 2014-2016 necessità totali di risorse per 3,5 miliardi, che avrebbero dovuto essere coperte, tra l’altro, con un aumento di capitale di 1,8 miliardi e una crescita delle linee di indebitamento a breve per 1,5 miliardi. Nessuno dice da dove arriverebbero tali risorse mentre inoltre, da alcune fonti, si valuta come i numeri del piano, sul fronte economico come su quello finanziario, non siano molto attendibili.

A nostro parere un serio programma di rilancio del gruppo dovrebbe mettere in campo cifre molto più consistenti di quelle indicate.

Sul fronte delle soluzioni tecnologiche per lo stabilimento di Taranto veniva indicata, tra l’altro, la sostituzione dell’impianto del coke con la tecnica del cosiddetto pre-ridotto, cioè con prodotti semilavorati; senza entrare nei dettagli della questione, ricordiamo che da molte parti tale soluzione viene criticata come fortemente costosa, adatta soprattutto ai piccoli impianti e tale da ridimensionare comunque fortemente l’occupazione.

Un quadro insomma catastrofico, nel quale peraltro la culpa in vigilando del governo appare molto rilevante.

 

La nuova compagine imprenditoriale

Passando forse attraverso un periodo di amministrazione straordinaria di qualche mese, vista la situazione finanziaria del complesso, si metterebbe nel frattempo in campo una nuova cordata imprenditoriale, che sarebbe composta da un gruppo straniero in posizione dominante e da alcune aziende italiane in posizione di secondo piano.

Il gruppo straniero sarebbe costituito dalla indiana ArcelorMittal, il più grande complesso siderurgico del mondo. Esso è noto, tra l’altro, per la durezza con cui porta avanti i suoi obiettivi, in particolare sul fronte sindacale. Peraltro la stessa ArcelorMittal ha già una larga capacità produttiva in Europa e forse il suo interesse per l’Ilva si spiega solo con il desiderio di bloccare i potenziali concorrenti cinesi o coreani. Ma comunque, prima di firmare un impegno, immaginiamo che l’azienda voglia aver chiaro il quadro delle intenzioni della magistratura e delle prescrizioni ambientali.

Ci vorrà probabilmente parecchio tempo.

Sarebbero poi presenti la Marcegaglia, impresa in rilevanti difficoltà di mercato dopo lo scoppio della crisi del 2008 e di cui non si capisce come farebbe a contribuire finanziariamente all’operazione se non a livelli minimi e che forse spera, entrando nell’azionariato, di risolvere qualche suo problema interno. Un ruolo non dissimile si potrebbe configurare per il gruppo Arvedi, sul quale comunque non disponiamo di dati economici e finanziari adeguati. Infine, sarebbe della partita anche la famiglia Riva, con cui l’attuale governo sembra intrattenere delle relazioni cordiali e che comunque l’azione di una parte della magistratura non è sin qui riuscita a estromettere dall’azionariato.

Il governo e il nuovo piano

l’atteggiamento del governo sulla partita sembra quello di benevolo assecondamento delle decisioni dei gruppi privati. L’ipotesi di fondo sulla futura sistemazione del gruppo appare scandalosamente quello del ridimensionamento e dello smembramento.

Una delle vie per un possibile accordo, secondo quanto ha paventato l’onorevole Massimo Mucchetti negli scorsi giorni, sarebbe quella di affidare agli indiani il sito di Taranto, che peraltro verrebbe drasticamente ridimensionato come capacità produttiva, con la perdita di molte migliaia di posti di lavoro e la fine di una presenza importante dell’Italia nel settore dell’acciaio; Novi e Genova andrebbero invece ai privati italiani (Marcegaglia, Arvedi, Riva).

Si butterebbero a mare gli interessi dei lavoratori e quelli del paese.

Speriamo che il governo cambi idea.

Cosa bisognerebbe fare

A nostro parere bisognerebbe mantenere invece fermi gli obiettivi di un forte disinquinamento dell’impianto e di un rinnovamento tecnologico, mentre bisognerebbe sostanzialmente conservare la capacità produttiva e l’unità dell’impresa. Appare certamente essenziale l’intervento nella partita di un grande gruppo asiatico, dal momento che l’Italia non ha più le risorse finanziarie, manageriali e di mercato per stare adeguatamente in campo da sola, ma non dovrebbe necessariamente trattarsi di ArcelorMittal. D’altro canto, dovrebbe essere presente nella compagine azionaria in maniera rilevante un qualche azionista pubblico (la Cassa Depositi e Prestiti? Lo stesso Tesoro?) per tutelare gli interessi nazionali; ben vengano anche gli imprenditori privati, ma solo se mettono i soldi.

Si potrebbe pensare così a una soluzione simile a quella messa a punto dal governo francese per Peugeot-Citroen, gruppo che vede ora presenti nell’azionariato lo stato francese, i cinesi di Dongfeng e la famiglia Peugeot.