Sostanzialmente, appare soltanto un problema di cifre. La gip della procura di Milano, Maria Vicidomini, ieri ha bocciato l’accordo di patteggiamento raggiunto dalla famiglia Riva e dagli avvocati penalisti e civilisti e dal procuratore della Repubblica Francesco Greco, con i pm titolari dell’indagine riguardante il gruppo lombardo, Stefano Civardi e Mauro Clerici, dopo mesi di trattative. La gip ha ritenuto non congrue le pene concordate con i pm e non adeguata la cifra di 1 miliardo e 330 milioni di euro per il risanamento dello stabilimento Ilva di Taranto, in cambio di un trattamento più morbido nella definizione della posizione giudiziaria dei tre imputati. Il piano di Renzi, sbandierato a novembre scorso nel pieno della campagna del Referendum, non ha retto.

Per la gip, le richieste di patteggiamento avanzate da Adriano, Fabio e Nicola Riva «non possono essere accolte per assoluta incongruità delle pene concordate (…) a fronte dell’estrema gravità dei fatti contestati, costituiti (…) da plurimi reati di bancarotta fraudolenta caratterizzati da numerose distrazioni asseritamente realizzate attraverso le complesse operazioni di importi rilevantissimi ai danni della società Riva Fire spa e Ilva spa».

I soldi in questione sono quelli sequestrati nel 2013 dalla procura di Milano e dalla Guardia di Finanza, che si trovano nella cassaforte della banca svizzera Ubs, schermati da otto trust depositati nel paradiso fiscale dell’isola inglese di Jersey. Tra i motivi del rigetto dell’istanza, c’è tra l’altro anche il fatto che i soldi in questione erano stati sequestrati in riferimento al reato di riciclaggio allora contestato e non ai reati di cui i Riva rispondono nel procedimento trattato oggi.

Per lo sblocco dei soldi manca soltanto la pronuncia della Corte di Jersey. Ma l’udienza prevista lo scorso 2 febbraio è stata rinviata al 9-10 marzo per l’indisponibilità di un giudice. Nel frattempo, lunedì il Tribunale federale svizzero di Losanna ha anch’esso spostato al 31 marzo la decisione sullo sblocco dei fondi sequestrati e custoditi in Svizzera.

L’accordo raggiunto a novembre, prevedeva la concessione della continuazione tra una condanna già definitiva per associazione per delinquere (nello stesso processo, invece, l’accusa di truffa dovrà essere rideterminata in appello, come stabilito dalla Cassazione) e il reato di bancarotta. Per Fabio, uno dei due figli dello scomparso ed ex patron del gruppo Emilio Riva, la pena finale si aggirava tra i 4 e i 5 anni. Per Nicola, un altro figlio di Emilio, l’entità della pena non avrebbe dovuto superare i 2 anni. Adriano Riva, 86 anni, cittadino canadese residente in Svizzera e fratello di Emilio, invece, accusato di bancarotta, truffa e trasferimento fraudolento di beni aveva raggiunto un accordo pari a 2 anni e mezzo. «Rimane immutata la volontà di fattiva collaborazione con l’autorità giudiziaria di Milano e di Taranto e con il Governo per la soluzione delle questioni riguardanti le problematiche dell’Ilva», fa sapere in serata il Gruppo Riva.

Non è escluso, anzi è assolutamente probabile che accada in breve tempo, che si possa arrivare a un nuovo accordo. Perché in ballo c’è anche e soprattutto la vendita del siderurgico di Taranto, il destino di oltre 20mila lavoratori del gruppo Ilva e la salute dei cittadini di Taranto.