A inquinare la storia recente di Taranto, facendo piombare la città in una disgregazione da cui per ora non si intravede alcuna via d’uscita, ci sono due fallimenti.

Innanzitutto c’è il fallimento della privatizzazione del grande centro siderurgico dell’Italsider, la grande «svendita» del 1994 da cui nasce il modello-Riva. Negli ultimi due decenni l’Ilva è stato una straordinario laboratorio del lavoro post-moderno, capace di mescolare e amalgamare tra loro il liberismo all’italiana e il ritorno alle fabbriche degli anni cinquanta del secolo scorso. L’immane disastro ambientale (che non nasce certo con la privatizzazione, ma si acuisce decisamente negli ultimi due decenni, senza che venga adeguatamente arrestato) è in fondo la manifestazione esterna dei rapporti di forza instauratasi all’interno della nuova fabbrica. Frequenti infortuni e morti sul lavoro, ricorso eccessivo allo straordinario, tassi di sindacalizzazione che scendono in picchiata, mancati interventi di manutenzione e di ammodernamento degli impianti, un lavoro insicuro che torna a essere «fatica», per quanto associato da ingenti masse giovanili all’unica forma di «posto sicuro» in una delle principali lande italiane del non-lavoro. Questa è stata l’Ilva per Taranto.

Ora che la fabbrica-laboratorio sembra andare alla deriva, gioverà ricordare che, al di là della «soluzione» commissariamento decisa a Roma, è proprio alla necessaria trasformazione di quei rapporti interni che bisogna guardare per superare questo singolare stadio di alienazione post-moderna in cui è precipitata una vasta e frammentata comunità operaia. Una comunità vittima, negli ultimi due decenni, della sapiente costruzione – da parte della dirigenza aziendale – di un rapporto diretto vertici-dipendenti, che ha progressivamente indebolito (al di là dei propri errori) le rappresentanze sindacali.

[do action=”citazione”]La soluzione necessaria, decisa ieri in Cdm, rischia paradossalmente di congelare lo stato delle cose, facendo ricadere sulla collettività i costi dei mancati interventi della proprietà[/do]

Gioverà anche ricordare (in un’epoca in cui trionfa l’ambiguo slogan «destra e sinistra per me pari sono») che Taranto, negli stessi anni in cui si erigeva il modello-Riva, è stata uno dei principali laboratori della peggiore destra del Mezzogiorno. Dapprima con il trionfo a furor di popolo del telepredicatore-fascista-razzista-colluso con la mafia Giancarlo Cito; in seguito con la deflagrazione (a opera della giunta berlusconiana, successiva a quelle citiane) del più grave crack finanziario che la storia dei nostri enti locali ricordi: 900 milioni di euro di buco di bilancio, un dissesto da cui la città non si è ancora pienamente ripresa. Questi fatti non sono accaduti settanta o ottanta anni fa, sono accaduti negli ultimi quindici anni.

Tale laboratorio politico dello sfascio pubblico non era affatto un’oasi impazzita e slegata dal resto del mondo: da una parte ha avuto solidi legami, protettivi o di scambio, con i vertici nazionali del centrodestra; dall’altra i suoi luogotenenti si sono accucciati, senza muovere un solo dito, all’ombra del colosso siderurgico.

Tuttavia le due facce del fallimento di cui stiamo parlando (privatizzazione all’italiana da una parte; detriti politici della seconda repubblica dall’altra) non sono un caso a sé stante. Sono, a loro volta, la diretta conseguenza di un altro fallimento: l’implosione della prima repubblica e dell’intervento straordinario nel Sud.

Il modello-Riva e il modello-Cito sono la risposta scomposta al crollo simultaneo, e consustanziale, delle partecipazioni statali e del pentapartito. Più in profondità, sono la risposta peggiore che potesse esserci alla crisi del meridionalismo novecentesco, e all’esaurirsi delle sue leve di intervento.

Non era affatto sbagliato l’intervento straordinario nella sua fase iniziale, né l’idea di far crescere l’industria siderurgica in un luogo del Sud, come Taranto, già sede di altre esperienze manifatturiere e in quel momento – fine anni cinquanta – attraversata sa una violenta crisi di disoccupazione. È stato mortale il suo dilatarsi (specie in presenza di un ceto borghese e imprenditoriale locale apatico, incapace, lazzarone, melmoso, micromunicipale, che non poteva costruire di certo una valida alternativa all’intervento statale). È stato mortale il suo dilatarsi oltre ogni logica di impresa (anche pubblica), con la produzione di una valanga debiti.

[do action=”citazione”]Ci sono due fallimenti alle spalle del disastro ambientale e delle relazioni di lavoro deteriorate: quello pubblico degli anni ’80; quello privato dei ’90-2000[/do]

Il plumbeo punto di passaggio dall’uno all’altro è il biennio 1992-94. E anche per questo Taranto è, da molto tempo ormai, uno specchio deformato della irrisolta crisi italiana.

Giova ricordare tutto questo nel momento in cui si approva il commissariamento. Certo, separare i destini della fabbrica e della città-fabbrica da quelli di una dirigenza aziendale sotto inchiesta per reati gravissimi e incapace, allo stato attuale, di applicare persino le misure preliminari incluse nell’Aia (autorizzazione integrata ambientale) risulta essere un’operazione necessaria. Eppure bisognerà tenere a mente alcune cose.

a) Stiamo camminando lungo un crinale strettissimo. Da una parte dobbiamo superare il fallimento della privatizzazione. Dall’altra dobbiamo evitare di ricadere nel fallimento precedente. L’unico modo per farlo è quello di elaborare (culturalmente e politicamente, non solo tecnicamente) una nuova idea di pubblico, di intervento e indirizzo pubblico per il XXI secolo.

b) Nessun commissariamento sarà mai efficace se non verrà inserito all’interno di una rinnovata politica industriale, per il Sud e per l’Italia. Qui non si tratta di mettere in campo l’ennesimo salvataggio in extremis, ma di ripensare – in un momento estremo – ciò che per vent’anni è stato messo in un angolo: la programmazione economica e industriale di un intero paese (deindustrializzato e in recessione) all’interno di uno scenario europeo sempre più complesso.

c) Occorre uscire, ancora una volta, dalle fauci di una contrapposizione al ribasso. Non si può accusare chi solleva la drammatica questione ambientale di favorire la deindustrializzazione e la disoccupazione. Allo stesso tempo, non si può accusare chi vuole difendere i posti di lavoro. Si può uscire da questa lotta tra «opposti estremismi» (entrambi i quali ruotano intorno al mito premoderno della immodificabilità del lavoro di fabbrica) chiedendo, pretendendo e realizzando la trasformazione radicale degli impianti, la trasformazione radicale dei rapporti di lavoro interni alla fabbrica, la trasformazione radicale del rapporto tra fabbrica e città (non due entità separate, bensì strettamente intrecciate tra loro). Per quanto difficile da raggiungere, in questo momento non v’è altra soluzione.

d) Come esigere la restituzione del maltolto da parte della dirigenza Ilva? È questa la domanda a cui sembra difficile dare una risposta, più che a ogni altra cosa. Da una parte il sequestro di 8,1 miliardi richiesto dalla magistratura jonica è solo preventivo. Qualora i soldi venissero effettivamente raccolti, non potrebbero essere utilizzati in alcun modo fino alla fine del processo per disastro ambientale, che si preannuncia lunghissimo. Dall’altra, le dimissioni dell’intera dirigenza Ilva è l’ennesima conferma del desiderio di disimpegnarsi di fronte alle proprie responsabilità e alla gravissima crisi già causata dal proprio operato.

La soluzione necessaria, il commissariamento, deciso ieri dal Consiglio dei ministri, rischia paradossalmente di congelare questo stato di cose, facendo ricadere sulla collettività i costi dei mancati interventi di Riva. Viceversa (iter giudiziario a parte), la mancata applicazione delle norme preliminari dell’Aia dimostra come sia molto difficile, per usare un eufemismo, coinvolgere i Riva in un percorso di cambiamento virtuoso. E allora come ottenere che essi reinvestano una parte dei loro profitti per uscire da quel disastro di cui si sono dimostrati responsabili (non gli unici ovviamente, ma tra i principali decisamente)?

È ancora possibile, nel momento in cui si decide il commissariamento, e mettendo per un attimo da parte l’azione della magistratura, riflettere su azioni di sequestro da parte dell’autorità politica? In fondo la stessa legge 231 evoca un esproprio del genere, anche se non ne definisce le modalità.

Il solo porre tali domande dimostra quanto siano radicali le questioni poste dal caso-Taranto. Non si sta parlando «solo» di inquinamento. Non si sta parlando «solo» di come salvare il lavoro generato da quello che ormai è il più grande insediamento industriale del paese.

Si sta parlando anche della sua trasformazione. E si sta parlando, in buona sostanza, di come ripensare il rapporto tra pubblico, privato, impresa, lavoro, città, classi, quartieri in questa Italia sventrata. In questo scorcio di XXI secolo.

*Autore del libro «Fumo sulla città» (ed. Fandango)