Non è piaciuto al presidente dell’Anac Raffaele Cantone l’uso che il vicepremier Di Maio ha fatto del parere che giovedì sera è arrivato sulla sua scrivania in merito alla vicenda Ilva. Parlando venerdì ad un’aula della Camera deserta, Di Maio ha presentato le criticità evidenziate dall’Anac sul bando di gara per la vendita degli asset del gruppo siderurgico, parlando di «macigni», «regole cambiate in corsa» e «principio di concorrenza leso». Ma Cantone ieri ribadito che quello dell’Anac è solo un parere che non prevede suggerimenti o soluzioni, peraltro espresso su alcuni documenti inviategli dal Mise, di cui Di Maio avrebbe potuto fare a meno per decidere il destino dell’Ilva.

Un parere che ha messo in evidenza eventi peraltro già noti. Come lo slittamento dei tempi dell’attuazione del Piano ambientale, previsto in un primo momento a fine 2017 e posticipato a fine 2023. Decisione presa dal governo Renzi quando le due offerte principali, quella di ArcelorMittal e della cordata AcciaItalia (costituita da Jindal, Arvedi, DelVecchio e Cassa Depositi e Prestiti), erano state ritenute le due migliori: questo per l’Anac ha comportato l’esclusione di altre società interessate all’acquisto del gruppo Ilva, dopo lo slittamento dei tempi. Il problema è capire se effettivamente queste società siano mai esistite: al bando europeo del 2015 molte aziende presentarono offerte per singoli asset.

Chiarita anche la vicenda del mancato accoglimento del rilancio economico che AcciaItalia fece una volta che commissari e Mise scelsero l’offerta di Mittal un anno fa economicamente migliore. L’Anac ha sposato la tesi dell’Avvocatura di Stato: il rilancio era sì possibile, ma si metteva in guardia sul fatto che una volta accettato, ciò avrebbe comportato «un cospicuo allungamento dei tempi», dovendo le due cordate rieditare tutte le varie componenti dell’offerta: eventualità che avrebbe causato un «non auspicabile e ulteriore allungamento dei tempi» nell’attuazione del Piano ambientale.

Ora, al di là delle polemiche tra Di Maio e l’ex ministro Calenda, a cui è seguito un fiume di dichiarazioni di tutto l’arco parlamentare e del mondo sindacale, la vicenda Ilva può essere letta in maniera più semplice. Di Maio ha sposato una strategia chiara: ottenere il massimo da ArcelorMittal sul piano industriale e occupazionale da un lato, e su quello ambientale dall’altro magari riducendo i tempi di attuazione delle prescrizioni più importanti, giocando le carte in suo possesso in fatto di trasparenza e legalità.

Di Maio sa bene che non può chiudere l’Ilva nell’immediato né riconvertire l’economia di Taranto, come promesso per anni dal M5S in riva allo Ionio. Non solo perché per realizzare ciò ci vogliono anni di seria programmazione, ma soprattutto perché glielo impedirebbe l’alleato di governo, la Lega, che vuole un’Ilva risanata e produttiva. Che da decenni consente a tante imprese del nordest, storico bacino elettorale del Carroccio, di lavorare e produrre utili.
Il tempo però è tiranno: il 15 settembre scade la proroga concessa dai commissari per trovare un’intesa con il colosso indiano.