Tanta era la voglia di chiudere la sua esperienza ministeriale con un successo che Carlo Calenda ieri mattina ha tentato un vero azzardo. A pochi giorni dalla formazione del nuovo governo M5s-Lega – che anche lui dà per scontato – ha convocato sindacati e Mittal per proporre un accordo che chiudesse la trattativa Ilva.

PER AGGIRARE IL PROBLEMA dei 4 mila esuberi che gli indiani, forti di un contratto firmato con lo stesso governo, non vogliono assumere, Calenda ha giocato la carta Invitalia. Mettendo da parte il suo passato da manager privato e il suo pensiero liberista, ha proposto che la costituzione di una azienda ad hoc «Società per Taranto» partecipata dall’amministrazione straordinaria di Ilva e da Invitalia (la società di proprietà pubblica che gestisce le re-industrializzazione delle aree di crisi) che avrebbe assunto altri 1.500 dipendenti con la promessa che Mittal trasferisse loro lavoro. In questo modo il conto degli esuberi sarebbe sceso a 2.500. Per loro Calenda contava di usare 200 milioni – sempre pubblici – come «incentivi» per uscite volontarie («outplacement e auto-imprenditorialità») e prepensionamenti («accompagnamento alla quiescenza»). Infine, nelle ultime righe del documento («garanzie di fine piano») era inserita una ambigua formula per cui «tutti i lavoratori avranno garanzia di continuità occupazionale a tempo indeterminato».

NONOSTANTE LE PRESSIONI della Fim Cisl nazionale, i sindacati hanno però rigettato la proposta per il semplice motivo che «gli esuberi restano e noi abbiamo sempre detto che tutti i 14mila attuali dipendenti del gruppo Ilva devono essere riassunti», è la linea dei confederali. «Abbiamo interrotto la trattativa due settimane fa chiedendo che ArcelorMittal cambiasse la posizione sul numero degli occupati – spiega la segretaria generale della Fiom Francesca Re David – la posizione dell’azienda non è cambiata di un millimetro. C’è una proposta del governo fondata sul contratto di acquisizione. Non abbiamo ancora mai fatto una trattativa di merito», ha aggiunto Re David spiegando che gli indiani non hanno bisogno dell’accordo sindacale per acquisire l’Ilva: «L’accordo non è vincolante, ne ha bisogno solo in caso di deroghe alle leggi».

«LA PROPOSTA NON È condivisibile – ha commentato l’appena riconfermato segretario generale della Uilm e ex dipendente di Ilva Rocco Palombella – . Per noi non può esserci riduzione di organico né riduzione salariale, invece ci chiedono un taglio del premio di risultato. Siamo consapevoli che ci siano difficoltà ma non si può accettare una proposta con un sì o con un no. Ribadiamo di voler continuare a negoziare ma senza i vincoli previsti dal contratto di vendita».

Più sfumata la posizione della Fim Cisl. Che ha dovuto obtorto collo dire no sotto la spinta dei delegati territoriali. Secondo il segretario generale della Fim, Marco Bentivogli, esistono invece «motivi più politici che sindacali che hanno fatto saltare la trattativa: al tavolo un pezzo dei sindacati (il riferimento è a Sergio Bellavita dell’Usb, ndr). A questo punto il governo ha detto che non c’erano più le condizioni per proseguire. Personalmente non avrei accettato la provocazione e non sarei caduto nella trappola, avrei proseguito il lavoro», chiosa Bentivogli. Calenda ha infatti chiuso il tavolo dichiarando di «aver fatto tutto il possibile, con ingenti risorse pubbliche, ma ora il dossier passa al prossimo governo».

LA FIOM HA RESPINTO CON FORZA l’ipotesi che le posizioni di alcuni sindacati fossero di stampo politico: «Non mi interessa da chi sarà formato il nuovo governo, mi interessa solo il merito della trattativa».
In tutto questo la posizione di Arcelor Mittal è molto chiara. Avuto pochi giorni fa il «via libera» all’acquisto di Ilva da parte dell’antitrust europeo il gruppo franco-indiano sapeva benissimo che i tempi della trattativa sarebbero stati lunghi e che toccherà aspettare il nuovo governo. Ma non ne è assolutamente spaventato.

CHE QUALCHE SINDACALISTA a Taranto o a Genova si auguri che M5s o Lega – come da dichiarazioni di molti esponenti – nazionalizzino l’Ilva è certamente vero. Ma forse in quest’ottica i 200 milioni di soldi pubblici messi sul piatto da Calenda erano paradossalmente a fondo perduto: a questo punto la nazionalizzazione sarebbe stata più coerente e, in caso di vero rilancio, foriera di guadagni per lo stato.

L’unica cosa certa è che l’addio di Calenda rimette in gioco il presidente della regione Puglia Michele Emiliano, grande nemico del ministro e sempre vicino alle posizioni grilline su Taranto che non escludono riconversione totale o chiusura dell’acciaieria. La partita è ancora completamente aperta.