Il premier Hariri ha annunciato qualche giorno fa l’ennesima imminente formazione del nuovo governo che «promuoverà riforme e arginerà il collasso economico» entro la visita (disdetta causa covid) pre-natalizia – la terza dall’esplosione che il 4 agosto ha devastato Beirut, causando circa 200 morti e 7mila feriti- di Macron. Tra gli altri, Jumblat, capo dei Socialisti progressisti e delle milizie druse nella guerra civile (1975-’90), stronca sul nascere la “fumata bianca”, a conferma che le antiche logiche di spartizione sono tutt’altro che superate.

È il 10 agosto: l’allora premier Diab – ora accusato assieme a due ex-ministri di negligenza per i fatti del 4 agosto – rassegna le dimissioni. Viene incaricato l’ex-diplomatico Adib, che rinuncia dopo meno di un mese, e quindi tocca per la quarta volta a Hariri formare (in tempi record) un governo.

Il politologo Karim Bitar – docente di Relazioni internazionali all’università Saint Joseph di Beirut e membro dell’Istituto per gli Affari internazionali e strategici di Parigi – e lo storico Ziad Aburish – direttore del master in Diritti umani e Arti al Bard College di New York, co-editore della rivista Jadaliyya, ricercatore di state-building e mobilitazione popolare in Libano – fanno il punto della situazione.

Dopo il 4 agosto e le dimissioni di Diab e Adib, si è avuta l’impressione che Hariri potesse formare immediatamente un governo, date anche le pressioni interne ed esterne al Paese. Cosa e chi lo impediscono?

K.B.: Lo stallo è dovuto al fallimento dell’iniziativa francese subito dopo l’esplosione. Hariri non si è mosso velocemente, aspettando forse l’esito delle elezioni americane da cui dipende la linea su Iran e quindi Hezbollah. I partiti cercano ora di massimizzare ciascuno la propria quota di potere.

Z.A.: La thaura (rivolta) del 2019 è finita. Covid e crisi hanno ridato credibilità ai partiti, che hanno assicurato un posto in ospedale, distribuito soldi, cibo, assistenza, etc., in assenza di uno stato funzionale e quasi totalmente privatizzato. Ciascuno reclama ora il suo. Poi ci sono gli interessi stranieri. Ci vuole tempo a mettere d’accordo tutti.

La Banca centrale libanese sembra essere una roccaforte inespugnabile. Perché? Che ruolo ha nella crisi?

K.B.: Le Monde ha parlato di Stato nello Stato (espressione spesso usata per Hezbollah) per descrivere la Bcl. L’organo che dovrebbe essere tra i più autorevoli e rispettati dello Stato è oggi discreditato e il suo governatore Salameh – accusato di aver innescato uno Schema Ponzi, di aver mentito ai libanesi e aver finanziato il paese nonostante sapesse che la bancarotta era inevitabile – è paragonato a Mudoff. La responsabilità della crisi finanziaria è dello stato, della banca centrale e dei grandi azionisti privati, ovvero le banche che controllano il paese.

Z.A.: La Bcl nasce nel 1964 per regolare il settore bancario e tutelare lo stato. Oggi è l’opposto: la Bcl rappresenta e tutela proprio quel settore, i cui membri siedono addirittura nel suo cda. I partiti sono tutt’uno con l’élite finanziaria e proteggono Salameh. È sbagliato farne il capro espiatorio: sistema politico, banche e Bcl sono parti dello stesso ingranaggio.

Quali interessi muovono oggi la Francia oggi in Libano?

K.B.: La Francia ha sempre avuto un ruolo centrale in Libano. Non ostracizza nessuno, dialoga anche con Hezbollah e può mediare tra Libano, Usa, Iran, Israele e Arabia Saudita. Può inoltre mobilitare risorse internazionali che altrimenti non arriverebbero. Il fallimento dell’iniziativa di Parigi ad agosto e settembre ha dimostrato però i limiti della sua diplomazia, al cui volere ad ogni modo il Libano dovrà piegarsi perché il sistema ha urgente bisogno di soldi.

 

Macron e Hariri a colloquio lo scorso 31 agosto a Beirut (Ap)

 

Z.A.: Macron ha investito molto in termini di capitale politico personale in Libano: ne andrebbe della sua credibilità. Scalzata negli anni dagli Usa, la Francia cerca un nuovo ruolo in Medio Oriente e questa è un’ottima opportunità. Anche a livello economico: si parla infatti già di appalti nella ricostruzione del porto e di nuovi/vecchi accordi economici…

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e altri stati sta segnando gli equilibri regionali. Dall’estate il Libano tratta con Israele sul confine marittimo. Parlare di Israele in Libano vuol dire anche e soprattutto parlare di Hezbollah. Quali sono gli scenari possibili in un prossimo futuro?

K.B.: Se la logica economica – le riserve marine di gas – è chiara, politicamente è una questione molto delicata. Il dialogo sul confine, tabù qualche anno fa e ora tacitamente approvato da Hezbollah, non sarebbe stato possibile senza le sanzioni imposte dagli Usa su figure connesse ma non direttamente affiliate al partito. Le ripercussioni sull’equilibrio Libano-Hezbollah-Israele sono indubbie, ma di difficile previsione.

Z.A.: Non bisogna banalizzare la complessità di un fenomeno come Hezbollah né demonizzandolo né romanticizzandolo. Nella guerra in Siria si è visto il ruolo chiave del Partito di Dio e la sua centralità nella regione. Descriverlo come un proxy dell’Iran è un errore. C’è stato certamente un cambio di passo sui dialoghi con Israele, ma la normalizzazione dei rapporti farebbe venir meno il pilastro centrale della stessa esistenza di Hezbollah e non credo sia possibile al momento.

 

Sostenitore di Hezbollah con in mano l’immagine del comandante (e martire) Imad Mughniyeh (Ap)