Il concetto di «Illuminismo arabo-islamico» si è affermato, con grande forza, nel campo della critica filosofica. L’interesse per filosofi come al-Fârâbî, Avicenna, Averroè è sempre più vivo in Occidente, ma anche in pensatori democratici e riformisti in Egitto, Marocco, Siria, e questo ci fa scoprire che proprio qui sono le radici di un grande pensiero etico-politico che l’ombra nera e feroce dell’Isis non è in grado di cancellare. In un momento felice di al-Andalus, a Cordova, nel XII secolo, Averroè si impone come sommo interprete di Aristotele, non solo, concepisce un progetto ambizioso, quello di fondare la comunità religiosa, intellettuale e sociale sulla sola verità conseguita attraverso l’argomentazione razionale propria della filosofia.
Una ricostruzione, preziosa perché ben articolata e ben motivata, della sua figura e del suo pensiero, ci consegna ora Matteo Di Giovanni, che insegna Filosofia antica e araba all’Università di Monaco di Baviera con questo Averroè, pubblicato da Carocci («Pensatori», pp. 282, € 19,00). Averroè è il massimo esegeta di Aristotele – così lo ricorda Dante, «Averoís, che’l gran comento feo» (Inferno IV, 144) – ma il suo non è un esporre senza innovare, perché il commento diviene uno spazio creativo, mosso da una forza di ispirazione e di progetto. Lontanissime sono ormai da noi le pesanti riserve di Ernest Renan, nel suo pionieristico e ancora utile Averroès et l’averroïsme (1852): l’opera del Commentatore sarebbe solo un’appropriazione meccanica del pensiero di Aristotele, e questo necessariamente, per l’esotica fiacchezza, per l’angustia tipica della razionalità orientale, ben diversa dalla genialità del pensiero greco. La filosofia di Averroè, invece – e la critica contemporanea lo va scoprendo sempre di più – è stratificata e complessa, si muove ora nelle pieghe di un’esegesi minuziosa e sottile, ora nella proposta di grandi sintesi speculative, non si lascia inquadrare in uno schema univoco e pone, piuttosto, delicati problemi di ricostruzione genetico-evolutiva.
L’analisi del procedere articolato e problematico del Commentatore all’interno del pensiero di Aristotele è uno dei punti di forza del saggio di Di Ruggiero, che dedica pagine intense ai commenti della Metafisica – in particolare al libro dodicesimo, che ne è il vertice speculativo – e del De anima. Qui, attraverso un confronto serrato con le posizioni di Alessandro d’Afrodisia – il suo materialismo radicale è suggestivo, ma inadeguato – e di Temistio, i due commentatori ellenistici, e poi di al-Fârâbî e di Avicenna, Averroè giunge alla grande formulazione dell’intelletto possibile, ricettore delle forme universali, come sostanza immateriale ed eterna. L’intelletto è il tramite attraverso cui l’uomo, costretto nei limiti dello spazio e del tempo, si apre al mondo delle idee. È vita spirituale realizzata nella materia e sembra partecipare, come tale, alla stessa incorruttibilità dello spirito. Se vi è qualcosa di immortale e di divino, qualcosa che eleva l’individuo oltre i confini della realtà immanente, un tale principio è l’intelletto. E si immagina così, attraverso il pensiero, una emozionante comunità degli uomini di tutti i tempi.
Nel contesto in cui vive e opera Averroè, la filosofia è considerata alternativa alla Legge religiosa e pericolosamente vicina all’eresia. Occorre salvarla. Nel Trattato decisivo. Sull’accordo della religione con la filosofia è proposto un sottile equilibrio. Nessuna contraddizione si può trovare tra la verità che è esplicitata nella Legge religiosa (shari’a) e quella articolata dal filosofo. «Il vero non contrasta con il vero», si afferma, seguendo Aristotele. Ciò non significa che la Legge religiosa e la filosofia siano vie equivalenti sul piano della conoscenza. Dato che diversi sono i gradi di consapevolezza nella moltitudine dei credenti e in chi professa la filosofia, diversi devono essere i linguaggi. L’uomo di religione si rivolge al consorzio degli uomini in una forma universalmente accessibile e retoricamente efficace, il filosofo – che viene ben distinto dalla casta degli invisi teologi, legati alla meschinità del più cieco tradizionalismo, capaci solo di cavilli e di disordini – opera, in tutta autonomia, secondo i dettami della ragione.
Averroè risolve in tal modo, annullandola, in una potente intuizione, ogni inimicizia tra fede e ragione: non è più necessario resistere alla fede per seguire la ragione, né rinunciare alla ragione per ottemperare alla fede. Perchè la fede stessa – il Corano ci invita a conoscere tutte le cose che Dio ha creato: «Riflettete, o voi che avete occhi a guardare!» (LIX, 2) — è fede nella ragione.
E la filosofia è proposta come norma necessaria del vivere associato, come paragone e criterio per l’organizzazione delle istituzioni civili, sociali e religiose, come manifesto della città ideale. Di questo progetto ambizioso Di Ruggiero ricostruisce il percorso, nei suoi momenti principali, nelle sue strategie, e ne mette bene in luce il coraggio e l’audacia. L’audacia di aprire la comunità e il mondo a un discorso altro, quello della ragione e della filosofia: «Se nel praticare un sacrificio [l’uccisione rituale dell’animale] si usa uno strumento idoneo, non ha alcuna importanza per la validità del sacrificio se lo strumento appartiene a qualcuno che professa la nostra religione oppure no. È chiaro che per “coloro i quali non professano la nostra religione”, io intendo gli antichi che si sono occupati di questioni speculative prima dell’avvento dell’Islâm».