Dai recenti dati dell’Ocse e del Social Institute Monitor Europe in tema di diseguale distribuzione del reddito (il manifesto del 17 dicembre), risulta confutato il principale mito ideologico dei liberismi vecchi e nuovi, l’idea secondo cui una maggiore diseguaglianza offrirebbe ai più ricchi cospicue opportunità d’investimento e quindi alimenterebbe la crescita, con beneficio di tutti.

Il ragionamento (sul quale fanno leva da sempre le campagne della destra neoliberale e della stessa sinistra social-liberista) prospetta uno scenario nel quale, favorendo la crescita, la temporanea rinuncia alla giustizia sociale garantirebbe, poi, giustizia e benessere, poiché ben presto il maggior benessere «sgocciolerebbe» anche sui più poveri. Peccato che ogni evidenza – e la drammatica crisi nella quale ci dibattiamo – mostra il contrario.
Non solo la diseguaglianza tende ad autoalimentarsi radicalizzando le sperequazioni, ma marcia altresì di pari passo con la stagnazione. L’ingiustizia, insomma, avvantaggia soltanto i più ricchi, mentre rovina la stragrande maggioranza della popolazione. E il liberismo si conferma per quel che è: un’arma letale, oltre che sul piano etico e della coesione sociale, anche sul terreno economico.

Ma i dati Ocse e Sime offrono anche l’opportunità di riflettere su talune specificità del caso italiano, per ricavarne una rappresentazione sintetica degna di attenzione. La società italiana è sempre più diseguale. Questo è un trend europeo e globale, ma in Italia le sperequazioni appaiono particolarmente forti. Per citare il dato più significativo, al 40% più povero della popolazione italiana va il 19,8% del reddito complessivo, contro una media europea del 21,2. I poveri in Italia sono dunque più poveri rispetto alla media. Non bastasse, ciò che a questo punto si evita accuratamente di aggiungere è che anche questa medaglia ha, come tutte, il suo rovescio.

Se i poveri sono più poveri, i ricchi sono sempre più ricchi, e molto probabilmente tra i due fenomeni sussiste qualche connessione. Basti anche qui il dato più rilevante: la ricchezza netta delle famiglie italiane aveva nel 2012 un valore pari a 8 volte il valore del reddito disponibile, mentre nel 2001 il rapporto era di “appena” il 6,7. Mentre il pubblico si impoverisce e si indebita, il privato registra dunque un significativo aumento delle proprie sostanze.
Il dato sul quale si pone sempre l’accento per avvalorare l’impellente necessità delle cosiddette riforme strutturali è l’ingente debito pubblico, superiore ai 2.200 miliardi. Nessuno mai ricorda invece che la ricchezza netta delle famiglie italiane (le meno indebitate d’Europa) supera (dati del 2013) gli 8.700 miliardi di euro.
Il che sarebbe un bene, intendiamoci. Se questa enorme ricchezza privata non fosse distribuita in modo disastrosamente iniquo (lo è in modo molto più sperequato del reddito: l’indice che misura la diseguaglianza della sua distribuzione è pari a 62,3%, contro il 33,3% dell’indice di concentrazione dei redditi, onde il 10% delle famiglie più ricche possiede oltre il 45% della ricchezza). Se non convivesse con una povertà diffusa e drammatica. Se, proprio in forza della sua collocazione, non concorresse al tempo stesso al declino del paese e al suo crescente indebitamento.

Anche a proposito del debito pubblico – a causa del quale l’Italia è un sorvegliato speciale sui mercati finanziari e in Europa, ed è costretta a una continua riduzione di piani di spesa ormai incompatibili con la manutenzione del welfare – si impone un chiarimento, prima di trarre qualche rapida conclusione.
Si sa – anche se si suole sorvolare – che il debito schizza in alto, irreversibilmente, quando, a partire dai primi anni Ottanta, governi e Banca d’Italia decidono di trasformare il grande capitale privato in prestatore, esentandolo di fatto dall’obbligo fiscale di contribuire in misura adeguata alla spesa pubblica, anche attraverso il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Il fatto che il debito italiano si raddoppi tra il 1981 e il ’95 (passando dal 58 al 121% del pil) non è la conseguenza di una spesa pubblica abnorme e meritevole di tagli draconiani, ma della scelta tutta politica di remunerare il capitale privato sollevandolo dalla gran parte degli oneri fiscali da una parte e limitando la crescita dei salari reali dall’altra.

Anche questo intreccio perverso tra debito pubblico ed evasione fiscale ha molto a che fare con la diseguaglianza, in quanto il meccanismo di remunerazione del debito opera nel senso di un continuo e crescente spostamento di reddito dal pubblico al privato, e in particolare alla quota più ricca della popolazione, attraverso il pagamento degli interessi.

Il risultato del processo è plastico, nella sua paradossalità. Da debitore insolvente (da anni in l’Italia l’economia sommersa è stimata rappresentare in modo stabile più del 15% del Pil), il capitale si trasforma magicamente in creditore, e costringe lo Stato a una spesa per interessi che dal 1992 è l’unica causa della crescita dell’indebitamento pubblico (e che, nel giro di trent’anni, ha comportato un esborso di oltre 2.100 miliardi, pari quasi all’intero ammontare del debito). Anche così si spiega il fatto che la proprietà del debito sia oggi per il 50% in mano ai privati italiani (famiglie, banche e altre istituzioni finanziarie). Il che, se da una parte riduce la dipendenza del paese dagli attacchi speculativi, dall’altra concorre ad accrescere la diseguaglianza tra chi prende gli interessi e chi paga le tasse.

In questo quadro l’evasione fiscale (circa 140 miliardi annui) alimenta un ulteriore diabolico circolo vizioso poiché, oltre a essere una delle principali cause dell’alto debito pubblico, rende anch’essa sempre più diseguale la distribuzione del reddito, facendo sì che il prelievo fiscale colpisca soprattutto il lavoro dipendente (sul quale in Italia grava la più alta aliquota implicita di tassazione di tutta la Ue).

Ora proviamo a rileggere queste risultanze dentro un quadro unitario e sintetico. Che cosa ne sortisce? Della crescente diseguaglianza e iniquità del sistema si è detto: la polarizzazione vede contrapposti settori sociali poveri (sempre più vasti e più poveri) a settori ricchi (proporzionalmente sempre più ricchi). Se a ciò si aggiunge che tale meccanismo di ripartizione/riproduzione della ricchezza nazionale funziona in presenza di una percentuale patologica di evasione/elusione fiscale e di un volume di corruzione stimato in circa 60 miliardi annui, ci pare se ne possa sinteticamente concludere che, nella sua odierna configurazione, l’economia italiana – il cosiddetto sistema-paese – non è soltanto un meccanismo fondato su ingiustizie economicamente rovinose, ma anche un sistema di dominio largamente basato sull’illegalità.

Lasciandosi andare per l’ennesima volta, in questi giorni, a esternazioni politicamente impegnative a sostegno del governo in carica, il presidente della Repubblica ha perorato la causa della stabilità, ritenendo di potere così motivare, alla vigilia delle dimissioni, le proprie scelte e il proprio interventismo, a tanti autorevoli osservatori apparso spesso costituzionalmente discutibile. Sembra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esortava a «fare i buoni» i soldati che, in fila, attendevano di essere spediti al fronte. Qualora potessimo permetterci di rivolgergli una domanda, gli chiederemmo se la stabilità alla quale si è riferito riguardi per caso anche questo stato di cose.