Non è una buona regola giornalistica, si sa, ma una volta tanto si può fare un’eccezione e cominciare da un commento. È quello dell’ex editore del Guardian, Alan Rusbridger, che otto anni fa rischiò tantissimo distruggendo le prove – pur di non consegnarle alle autorità – d’un gigantesco apparato di controllo mondiale. Le sue poche parole: «C’è voluto tanto, troppo tempo ma finalmente il mondo sa che Snowden aveva ragione». E che avesse «ragione» ora è ufficiale: l’altro giorno, la Corte europea per i diritti umani, la Cedu, con una sentenza ha stabilito che le intercettazioni di massa dell’agenzia di spionaggio inglese erano «illegali».

E SI PARLA ESATTAMENTE di quella gigantesca, inimmaginabile schedatura globale – che comprendeva anche presidenti e leader di tutti i paesi del mondo – realizzata dalle intelligence britannica e statunitense, denunciata per primo da Edoard Snowden. L’ex analista a contratto della Nsa che ha fatto saltare il tappo sull’enorme piano di sorveglianza. Un’operazione denominata in codice Tempora e che ha permesso l’archiviazione di milioni e miliioni di terabyte, raccolti setacciando e filtrando le reti di connessione.

Quella della Corte di Strasburgo è una sentenza rilevantissima – che in linea di massima ha confermato un analogo giudizio di una corte inferiore di quattro anni fa – ma che certo non risolve tutti i problemi aperti. «Un primo passo, che però non basta», per dirla con le associazioni che hanno promosso il ricorso legale.

I giudici, sintetizzando in pillole a scapito del linguaggio giuridico, hanno stabilito che quel livello di sorveglianza era illegale per «alcune carenze fondamentali». Innanzitutto, perché era stata autorizzata da un segretario di Stato e non da un organismo politico abilitato. E poi perché il «controllo totale» non era definito nei suoi limiti. Né di tempo, né quantitativi, diciamo così: quanto sarebbe dovuto durare, quante email, dati, foto, filmati, conversazioni si sarebbero potute sottrarre. Senza considerare che tutta l’operazione avrebbe dovuto essere sottoposta a verifica e controllo «in corso d’opera» e niente di tutto questo è stato fatto. Ed ancora: quel «sistema» non garantiva la protezione che le legislazioni internazionali prevedono per i giornalisti. La Cedu ha però aggiunto anche che non è fuori legge qualsiasi ipotesi di «sorveglianza di massa».

PARE DI CAPIRE che la sua liceità dipenda da come si fa e da chi è autorizzata. Di più: la Corte ha anche definito – in linea di principio – «non illegale» la condivisione con paesi stranieri delle informazioni raccolte dall’intelligence britannica.

La sentenza, insomma, non fa, né avrebbe potuto fare, chiarezza su cosa accadrà in futuro. Ma resta una «vittoria storica», sempre per usare il commento della coalizione che s’è rivolta ai giudici di Strasburgo. La prima in assoluto. Arrivata grazie «non solo ad una persona ma a tanti», per usare un tweet dello stesso Snowden. Vittoria che comunque – anche questo va detto – non avrà immediate ripercussioni. Perché il Regno Unito – un po’ furbescamente, cogliendo gli umori dell’opinione pubblica – aveva già fatto decadere il «Regulation of Investigatory Powers Act», il cosiddetto RIPA, dell’inizio del millennio, che appunto assegnava poteri illimitati alla sua intelligenze e che aveva permesso allo spionaggio di partecipare all’operazione.

ORA AL SUO POSTO c’è l’«Investigatory Powers Act», varato 5 anni fa, e che prevede un minimo di regole in più. Al punto che ieri il portavoce di Downing Street se n’è uscito con una dichiarazione di questo tenore: «Il Regno Unito ha uno dei sistemi più solidi e trasparenti per la protezione dei dati e della privacy in tutto il mondo, pur in presenza di minacce in continua evoluzione».
Anche questo, in ogni caso, sarà da vedere visto che proprio ieri, in concomitanza con la sentenza, una delle associazioni inglesi in prima fila per i diritti, Liberty, ha fatto sapere di aspettare altre sentenze: che riguardano appunto la nuova normativa. Legge, per capire, che tutti a Londra chiamano «la carta dei ficcanaso».

E che i governi conservatori inglesi non abbiano proprio tutti i requisiti a posto per mostrarsi paladini della privacy, lo dimostra anche il tema che da qualche settimana ha ripreso ad occupare i media: la cessione a società private dei dati dell’NHS, il sistema sanitario britannico.
Società che – ovviamente – si limitano a «collaborare» con le autorità pubbliche e che una volta finita l’emergenza coronavirus, dovrebbero cancellare dati e profili. Il problema però è che fra le società appaltatrici c’è la «Faculty AI», che ha fornito un enorme data base per elaborare la campagna elettorale per la Brexit. E soprattutto c’è la Palantir. Sì, proprio il gruppo fondato dal miliardario della Silicon Valley, Peter Thiel, sodale di Trump, coinvolta in tutti i «casi sporchi» di spionaggio digitale. Dall’Iraq all’Afghanistan fino alle frontiere americane. Non un bel curriculum per gli utenti inglesi.