La battaglia per la verità sulla morte di Stefano Cucchi, dopo sette anni e una nuova assoluzione per i cinque medici che lo ebbero in cura all’ospedale Pertini, non è ancora finita. Anzi, il quarto processo, quello che verrà e che vede alla sbarra per la prima volta i cinque carabinieri che lo catturarono nel parco degli Acquedotti, trovandogli addosso 28 grammi di hashish, alcune dosi di cocaina e i suoi farmaci antiepilettici, deve ancora svolgersi. Sarà probabilmente il processo della verità ma, dopo l’assoluzione dei medici due giorni fa, il legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo, è scoraggiato. Tanto che ha detto ieri, intervistato dal settimanale Left, si è lasciato scappare un «pensiamo di ritirarci, è una lotta contro i mulini a vento». Per lui, spiega, quest’ultima sentenza «può essere un assist – cioè un suggerimento – per l’inchiesta nei confronti dei carabinieri indagati».

Battagliera come al solito ma anche lei molto provata, la sorella Ilaria Cucchi ieri ha utilizzato il suo spazio-blog sull’Huffinton Post per scrivere una lunga e accorata lettera indirizzata al presidente dell’Anm Piercamillo Davigo intitolato «le persone vengono prima delle sentenze». Il titolo non dà però del tutto il senso di ciò che scrive la sorella del geometra morto il 22 ottobre del 2009 in un reparto dell’ospedale Pertini di Roma. E forse per capire il suo stato d’animo e l’allarme che l’ha portata a rivolgersi al presidente del sindacato dei magistrati bisogna andare a ciò che ha scritto sulla sua pagina Facebook a caldo, ripostando la foto del fratello sul tavolo della camera mortuaria, quattro giorni dopo il decesso. Un corpo più che emaciato, scheletrico, e segnato da ematomi e fratture, come del resto fu riscontrato già nel primo referto medico dopo l’arresto, all’ospedale Fatebenefratelli. Di fatto, spiega Ilaria Cucchi a Davigo, chiedendogli di leggere l’intero incartamento processuale, è come se con l’ultima sentenza la nuova corte d’appello abbia chiesto alla famiglia Cucchi di «farsene una ragione». La sentenza che proscioglie dall’accusa di omicidio colposo, cioè non voluto, il primario Aldo Fierro e gli altri quattro dottori del Pertini usa la formula «perché il fatto non sussiste». «Mi hanno spiegato – scrive Ilaria a Davigo – che questo vorrebbe dire o che Stefano è morto ma non si sa perché e non si potrà mai sapere o che mio fratello è morto di morte naturale o che è morto per colpa sua».

Scriveva la sera prima sul social network, con le foto del cadavere del fratello che Fb ha poi rimosso (ma sono riapparse a centinaia, ripostate da altri): «Ciao Stefano, tu eri già così. Lo sei sempre stato. Eri già morto e non ce ne siamo accorti…Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Magari tu sei sempre stato morto». In effetti la foto della morgue – quella foto che Ilaria ogni tanto esibisce come cartello – è la prova più tangibile in mano alla famiglia della vittima, assente in altri casi di persone morte in carcere o agli arresti come nel caso del livornese Marcello Lonzi – ma alcuni avvocati della difesa ora dicono che essendo stata scattata a distanza dal decesso, quell’immagine non sarebbe una prova del reale stato del ragazzo 31enne prima del sopraggiungere della sua ultima ora.
Ilaria Cucchi e il suo legale si dicono profondamente rispettosi delle sentenze della magistratura. Ma dopo sette anni anche la nuova inchiesta aperta dal procuratore Pignatone non ha reperito nuovi elementi di prova. Esiste solo la possibilità di una «resa cognitiva» al non poter far luce sulla morte di Stefano Cucchi, proprio quell’abbandono di ricerca della verità che la Cassazione ha ritenuto «inammissibile», respingendo il ribaltamento in appello da condanna a assoluzione per i cinque medici che ieri l’altro sono stati invece nuovamente assolti.

«Mi rivolgo a voi perché Stefano non muoia una terza volta», aveva sintetizzato il pm Eugenio Rubolino nella sua arringa chiedendo dai quattro ai tre anni e mezzo per i cinque medici. Intendendo dopo la prima degli uomini in divisa, la seconda dei camici bianchi ora la morte per mano della magistratura. «L’unico fatto che certamente sussiste – dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia – è la morte di Stefano Cucchi». Affidato alle non tanto amorevoli cure dello Stato.