Indossare anche solo per nove mesi in più ciò che abbiamo comprato significa ridurre di circa il 20-30% l’impronta ambientale dei nostri abiti in termini di emissioni di CO², rifiuti e consumo idrico, e questo solo in virtù del fatto di produrre e scartare un minor numero di cose.

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Per sensibilizzare anche il pubblico europeo a questo tipo di abitudine Patagonia, l’azienda californiana dell’outdoor, ha recentemente portato anche in Italia il «Worn Wear Tour», un giro delle 8 città del nostro paese dove sono presenti i propri negozi ufficiali (da Roma in su). Un furgone con sarti e personale specializzato ha riparato gratuitamente i capi tecnici logorati (anche di altre marche) in modo da far capire ai visitatori che consumare rapidamente i vestiti significa anche consumare l’acqua e l’ambiente.

Contemporaneamente, sono state regalate a tutti piccole guide utili per provvedere da soli alle riparazioni più semplici, dalla zip rotta ai bottoni fino agli strappi di tessuti impermeabili. E’ vero, come ha detto l’ad di Patagonia Rose Macario, che «riparare è un atto radicale».

Siamo andati a vedere la tappa romana, e abbiamo verificato di persona che moltissimi capi di qualità – anche quelli più tecnici per la neve o la roccia – che pensiamo siano ormai inutilizzabili, con un po’ di pazienza ed esperienza possono essere aggiustati e trovare nuova vita e nuove avventure.

«Riparare è un atto radicale»

di Rose Marcario

Mi sta a cuore la sorte del nostro pianeta; quindi ho formulato un proposito anticipato per il Nuovo Anno mentre si avvicinano le feste natalizie: diventiamo tutti ambientalisti radicali.

Suona un po’ forte, ma in fondo non è così. Tutto quel che vi occorre è un kit per il cucito e alcune istruzioni per la riparazione.

Come singoli consumatori, una delle cose più responsabili che possiamo fare per tutelare il pianeta è prolungare la vita delle cose che già utilizziamo. Il semplice gesto di far durare più a lungo i capi che indossiamo, avendone cura e riparandoli quando necessario, consente di non doverne acquistare di nuovi, evitando così di generare le emissioni di CO², la produzione di scarti e di rifiuti e il consumo di acqua associati ai cicli produttivi del settore tessile.

Perché riparare è un atto così radicale? Per molte persone, riparare qualcosa che si potrebbe anche scegliere di buttare via è un’idea quasi inconcepibile, soprattutto in quest’epoca che celebra moda e sviluppi tecnologici a getto continuo. Eppure, avrebbe un impatto sbalorditivo. Lo dico come CEO di un’azienda che produce abbigliamento: nonostante il nostro profondo impegno a una produzione responsabile, ciò che realizziamo esige dalla Terra più risorse di quante sia in grado di ripristinarne.

Viviamo in una cultura dove tutto sembra essere sostituibile. Certo, ci sono oggetti che in genere ripariamo perché sono particolarmente costosi, come le auto o le lavatrici, ma è più facile e spesso più economico acquistare cose nuove. E poi ci sono altri motivi che ci inducono ad evitare di riparare qualcosa, ad esempio etichette che avvisano dell’annullamento della garanzia nel caso si dovesse procedere a riparazioni autonome, o la mancanza di accesso alle informazioni e agli strumenti per consentirci di aggiustare le cose da noi.

Queste condizioni creano una società di consumatori di prodotti, non di proprietari di prodotti. E c’è una differenza. Chi è proprietario di qualcosa ha la responsabilità di averne cura al meglio, con tutta una serie di accorgimenti, da un’adeguata pulizia alla riparazione, dal riutilizzo alla condivisione. I consumatori, invece, acquistano, usano, gettano e ripetono il ciclo da capo: un circolo vizioso che ci sta portando al disastro ecologico.

Per mettere le cose in chiaro, il problema non è tanto l’atto di acquistare in sé (anche se non è difficile accorgersi che la frenetica follia che circonda i giorni dedicati allo shopping pre-natalizio ha raggiunto proporzioni assurde). In fondo, le nostre vite dipendono da un’ampia gamma di prodotti realizzati con sistemi di produzione che risultano dannosi per il pianeta– inclusi i nostri di Patagonia. Il problema è che è improbabile che questa escalation abbia fine, a prescindere da tutto il lavoro e l’impegno in cui cerchiamo di prodigarci per ridurre il nostro impatto sull’ambiente.

Qual è allora l’antidoto? Per ridurre la nostra impronta in termini di consumismo collettivo è indispensabile che le aziende che realizzano i prodotti e i consumatori che li acquistano condividano le medesime responsabilità– ma le imprese devono agire in modo indipendente.

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Noi di Patagonia lavoriamo sodo per produrre capi di abbigliamento di alta qualità, realizzati con materiali eco-sostenibili; indumenti resistenti e che possono essere riparati– e offriamo una garanzia che copre l’intera vita del prodotto. Gestiamo lo stabilimento per riparazioni più grande del Nord America (con all’attivo circa 40.000 interventi nell’anno in corso) e abbiamo anche formato il personale dei nostri punti vendita affinché sia in grado di gestire i lavori di riparazione più semplici (con l’aggiunta quindi di altre svariate migliaia di sistemazioni). Per l’imminente stagione delle festività natalizie, abbiamo chiesto aiuto a iFixit, pubblicando sul nostro sito Web più di 40 guide gratuite dedicate alle riparazioni dei prodotti Patagonia. Ci siamo dati molto da fare per offrire ai nostri clienti l’opportunità di aggiustare i propri capi e le proprie attrezzature in modo autonomo, di destinare gli articoli dismessi a donazioni o vendite, o di riciclarli se necessario.

In cambio, chiediamo ai nostri clienti di usare gli strumenti messi loro a disposizione per ridurre l’impatto ambientale delle cose che possiedono, aggiustandole, scoprendo modi alternativi per riutilizzarle, riciclandole quando sono effettivamente arrivate al termine del loro ciclo di vita. Acquistando solo ciò di cui hanno realmente bisogno, a lungo termine, i clienti possono contribuire concretamente a ridimensionare l’imperante consumismo globale. Facendo così di un acquisto un investimento che consenta di risparmiare denaro, e contribuendo a salvare il pianeta.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questa prospettiva. Se da un lato alcune aziende, come Ricoh, DeWalt, Caterpillar e Lenovo, hanno fatto di riparazione e rifabbricazione gli elementi basilari del proprio modello imprenditoriale, dall’altro la maggior parte delle aziende continua a realizzare prodotti economici che si rompono facilmente e che devono quindi essere sostituiti di frequente. Dal canto loro, i clienti, condizionati dalla ricerca del prezzo più vantaggioso, continuano a fare acquisti entro i limiti di tale modello, ripetendo così il ciclo all’infinito.

Inoltre, troppo spesso i prodotti non sono provvisti di istruzioni per la riparazione: si arriva anche a casi estremi in cui le aziende ostacolano di fatto gli interventi individuali inventando e brevettando nuovi attrezzi e altre sciocchezze del genere. Un simile atteggiamento dovrebbe essere giudicato inaccettabile, soprattutto se consideriamo la crisi ambientale con la quale siamo tutti chiamati a fare i conti; invece, l’obsolescenza pianificata viene celebrata come marketing “intelligente”.

Testimoni degli effetti sempre più rilevanti causati ogni anno dai cambiamenti climatici e con l’approssimarsi degli importanti dibattiti che riguardano proprio le politiche climatiche a livello globale, in occasione della Conferenza mondiale sul clima che si terrà a Parigi alla fine di questo mese , come singoli individui abbiamo il dovere di invertire l’attuale corso dell’iper-consumismo in cui siamo immersi. Comportiamoci come proprietari, non come consumatori! E ripariamo invece di infliggere al pianeta il peso dell’ennesimo nuovo prodotto se realmente possiamo farne a meno.

Come imprese, abbiamo invece la responsabilità di migliorare sempre di più la qualità di ciò che realizziamo per poter reclamare il titolo e lo status di “proprietari”, rendendo accessibili eventuali ricambi e semplificando i processi di riparazione. Diamo importanza alla sforzo di provare ad aggiustare qualcosa. Abbiamo bisogno di trasformare i nostri clienti in proprietari, e questo richiederà un cambiamento di prospettiva epocale.

È un pensiero radicale, ma il cambiamento può partire anche semplicemente da ago e filo.

Rose Marcario, CEO di patagonia_ copyright kumler_a@2016 Patagonia Inc
* Rose Marcario è Presidente e CEO di Patagonia, azienda leader di abbigliamento outdoor a livello mondiale con sede a Ventura, California. Articolo originariamente pubblicato in inglese su Quartz.