La storia dell’11 settembre non comincia l’11 settembre 2001: in realtà inizia il 12 dicembre 2000, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti letteralmente rubò la presidenza al candidato democratico Al Gore e la assegnò a George W. Bush mettendo fine al riconteggio dei voti in Florida. Se condotto fino in fondo, il recount avrebbe mostrato che il vantaggio di Bush (528 schede su sei milioni di voti validi) non esisteva, i 25 delegati della Florida nel collegio elettorale sarebbero andati a Gore, che sarebbe diventato presidente.

Cosa c’entra la vicenda elettorale del 2000 con l’11 settembre? C’entra perché un Gore presidente avrebbe certamente reagito energicamente agli attentati contro lo World Trade Center ma non ne avrebbe approfittato per invadere prima l’Afghanistan e poi l’Iraq, come fece invece Bush figlio, su pressione dei due cani da guardia che lo fiancheggiavano, il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.

Soprattutto, Gore avrebbe avuto sufficiente buon senso per non precipitare gli Stati Uniti in un conflitto senza fine come quello dichiarato da Bush, la «guerra al terrore». Nessuno spiegò a Bush che il terrorismo è un metodo, una forma di azione, non un nemico fisico. Mentre si possono sconfiggere gli stati, o i gruppi di guerriglieri, il «terrore» diventa un fantasma, un’entità metafisica che può nascondersi ovunque e per sempre.

Se il nemico è questo non potrà mai esserci vittoria completa, né pace. Non a caso, la guerra in Afghanistan è continuata per oltre dieci anni dopo l’uccisione di Osama bin Laden, avvenuta il 2 maggio 2011. Se lo scopo fosse stato catturare, o eliminare, il leader di al-Qaeda che aveva organizzato gli attentati dell’11 settembre, le truppe americane avrebbero dovuto ritirarsi dall’Afghanistan il giorno dopo.

I governi della Nato, Italia compresa, continuarono invece a restare sul posto con fragili motivazioni, prigionieri di una dottrina Bush a cui neppure Barack Obama seppe sottrarsi. L’11 settembre è stato all’origine non solo della più lunga guerra della storia degli Stati Uniti ma anche di pratiche e istituzioni permanenti, che ancora oggi pesano sulla vita americana. Non parleremo qui della incredibile violenza dispiegata nelle extraordinary renditions, né della crudeltà delle condizioni di detenzione a Guantanamo: su questo giornale se ne è scritto molte volte, documenti ufficiali dell’Onu, di Amnesty International e di molte altre organizzazioni ne hanno parlato, tutto è stato ampiamente documentato: la tortura, l’arbitrio, la futilità.

Basterà ricordare che tra i ministri del governo di Kabul annunciato martedì scorso, ben quattro sono stati una dozzina d’anni a Guantanamo, da dove furono rilasciati come parte di uno scambio di prigionieri nel 2014. I talebani hanno nominato Noorullah Noori, Abdul Haq Wasiq, Khairullah Khair e Mohammad Fazil Mazloom in posizioni chiave del loro esecutivo.

È opportuno soffermarsi, invece, sul Patriot Act, approvato pochi mesi dopo l’11 settembre, che ha rimodellato il funzionamento della giustizia americana, sostanzialmente svuotando la Costituzione e il Bill of Rights delle garanzie offerte ai cittadini in difesa dei loro diritti. Per esempio, il testo non definiva il «terrorismo», né cosa costituisse e cosa non costituisse sostegno al terrorismo. Di conseguenza, come dichiarò il costituzionalista David Cole testimoniando davanti al Senato nel 2005, «la legge definisce le organizzazioni terroristiche in modo così ampio da includere qualsiasi gruppo di due o più individui che abbia mai usato minacciato di usare un’arma contro persone o proprietà (a meno che non si trattasse di puro guadagno monetario personale)».

In pratica, chi manifestava contro la guerra, o le violenze della polizia, potenzialmente perdeva le garanzie costituzionali concesse ai rapinatori di banche. Un buon esempio sono le National Security Letters, cioè lettere emesse dall’Fbi che richiedono informazioni personali su un sospetto alla sua banca, alle sua compagnia telefonica o perfino alla sua biblioteca. L’associazione dei bibliotecari americani ha condotto per anni una meritoria battaglia contro questo strumento che permetteva di chiedere alle biblioteche la lista di libri che certi individui avevano preso in prestito. Non solo: ai bibliotecari era proibito, sempre in base al Patriot Act, di rendere noto pubblicamente che avevano ricevuto queste richieste dall’Fbi.

Come disse il deputato di New York José Serrano, la nuova legge conteneva «disposizioni preoccupanti che espandono il potere del governo di invadere la nostra privacy, imprigionare le persone senza un giusto processo e punire il dissenso. Il fatto che alcuni di questi poteri possano essere utilizzati in qualsiasi indagine penale, non solo un’indagine di terrorismo, sembra particolarmente preoccupante». E infatti nel 2003, si è scoprì che il Patriot Act era stato immediatamente usato per indagare non solo su potenziali terroristi, ma su sospetti trafficanti di droga, finanzieri, ricattatori, pedopornografi, riciclatori di denaro, spie e leader stranieri.

Il sistema di sorveglianza di massa delle comunicazioni telefoniche portato alla luce qualche anno fa da Edward Snowden era figlio di quella legge, oggi pudicamente ribattezzata Freedom Reauthorization Act. Più volte emendato, e marginalmente corretto dai giudici, il testo è sempre lì, perfetto esempio di quell’allargamento dei poteri della presidenza in senso autoritario di cui abbiamo visto le conseguenze con Donald Trump