Centro commerciale di lusso. Con questa definizione i media hanno liquidato nelle cronache il Westgate, teatro della strage di Nairobi. Troppo sbrigativamente, perché i centomila metri quadri, gli ottanta negozi, i bar, i ristoranti, che ogni giorno spalancano le porte ai clienti, rappresentano ben di più.
Il Westgate è la perfetta metafora dell’enorme e incolmabile distanza tra il popolo degli slum e i ricchi politici e imprenditori kenyani; è un mondo invalicabile anche per chi, ad esempio i colletti bianchi, può contare su uno stipendio.

Ricchezza per pochi

Una volta superato il controllo delle guardie armate di pistola e metal detector, si materializza davanti agli occhi una dimensione scintillante di luci e materiali pregiati, avvolta da un’ininterrotta colonna musicale, disegnata da giardini tropicali immersi nell’acqua delle fontane. Le scale mobili fanno la spola tra le vetrine degli antiquari, dei marchi globalizzati, delle griffe «made in», dei gioiellieri e della bigiotteria etnica. Cerchi un cd? Lo store che li vende è gigantesco. Cerchi una camicia in stile safari? Venticinque dollari. Fuori da qui, appena duecento metri, sotto le tende di un mercato di strada, venticinque dollari sono un’enormità. Si parla a bassa voce, nel Westgate. Non si spingono carrelli come succede dentro i centri commerciali dell’Occidente. Le signore e i signori di varie età e di medesima condizione privilegiata, escono da un negozio impugnando una borsa di cartone patinato.

Sotto accusa l’Artcaffé

Metafora nella metafora delle distanze sociali ed economiche sono l’Artcaffé, e la sua terrazza, da cui, insieme alle gradinate di accesso, hanno fatto irruzione all’interno dell’edificio i terroristi di Al Shabaab. Il locale appartiene, come gran parte del complesso, a un gruppo di imprenditori israeliani. Sulla terrazza sfilano in passerella i privilegiati di Nairobi e siedono i turisti. Spazi enormi ripartiti in aree (caffetteria, bar, ristorazione, pasticceria), arredati guardando a New York e alle metropoli d’Europa. Un addetto filtra il flusso degli avventori. Dietro i banchi e in mezzo ai tavoli, ragazze e ragazzi bellissimi spendono sorrisi. O meglio sono costretti a farlo. Su internet si incontrano decine e decine di blog che mettono sotto accusa l’Artcaffé.

Nessun assunto

Nessun cameriere è assunto, moltissimi lavorano il tempo di un weekend e poi si vedrà, gli stipendi sono da fame; chi viene preso in forza, sempre senza contratto, deve comprarsi la divisa. A ciò si aggiunge un diffuso razzismo nei confronti di coloro che (neri di pelle) non sono ritenuti all’altezza del posto. Leggendo i blog, sembra di stare nel Sudafrica dell’apartheid: un posto rifiutato anche quando c’è, frasi sprezzanti tipo «ma lo sai che qui un caffè costa molto caro?», chiamate facili alla polizia se qualcuno insiste a protestare. Su Trip Advisor svariate recensioni denunciano episodi simili o peggiori.
Schiaffo a parte e sonoro, la decisione del management israeliano di non comprare il caffè in Kenya, ma di importarlo da altri Paesi. Che nella scelta terroristica del Westgate e dell’Artcaffé come obiettivi abbia dato il suo contributo tutto questo, appare allora ipotesi non certo affidata a un vuoto esercizio di dietrologia.