Banale constatarlo, ben al di là di anniversari e ricorrenze, esistono cicli espositivi che – superando le mura di un singolo museo o di una sola istituzione culturale – si acclimatano su un nome, un momento storico, certi temi, come se a un tratto l’aria del tempo fornisse una media stagionale per le predilezioni di curatori disparati, oltre la coerenza di un calendario condiviso. La circostanza – lo si è detto – potrà sembrare ovvia qualora si pensi a operazioni occasionali, a progetti legati alla personalità consacrata, all’oeuvre canonica, alla riscoperta sostenuta dall’accademia e dalle leggi del mercato; più sorprendente sarà invece misurare quanto, visitando un percorso, attraversando un allestimento, si possa incappare in un gioco di echi sottili, ci si trovi magari impigliati in una rete di rimandi impliciti, di rinvii inattesi ad altri eventi, appuntamenti distinti che si viene appena dal visitare.
È il caso della bella selezione di opere, proposta oggi (e fino al 23 settembre) alla Frick Collection di New York, in collaborazione con la Gipsoteca di Possagno (dove la mostra approderà in autunno), una rassegna costruita attorno all’imponente ritratto a figura intera, maggiore del naturale, scolpito da Antonio Canova in omaggio a George Washington a diciassette anni dalla scomparsa del generale e uomo politico americano, cioè fra il 1816 e il 1820; una figura imponente spedita a Raleigh come ornamento della State House della North Carolina.
La mostra descrive pertanto una duplice sfida, giocata sul piano complesso della tecnica e dello stile: il maestro, infatti, accogliendo la commessa affidatagli per intercessione di Thomas Jefferson e sulla scorta di un clamoroso successo internazionale, accettava di adoprarsi in una doppia ‘traduzione’, quella destinata a trasporre nel marmo le fattezze vive di un uomo celebre (morto nondimeno da tre lustri) e quella convenuta per far intendere ai propri contemporanei oltre oceano la lingua moderna dell’Antico (o, se si vuole, per trasferirne la storia nel paludato, evocativo travestimento della classicità).
Tali nodi concettuali ribattono eloquentemente sugli argomenti affrontati a poche strade di distanza nell’esposizione Like Life, ordinata al terzo e quarto piano del Met Breur per raccontare la dialettica costante tra idealismo e realismo nella statuaria moderna, dal Medioevo ai giorni nostri; rimandano però anche all’ambivalente incontro dell’intelligentija politica, letteraria americana con le meraviglie del Vecchio Mondo a cavallo fra Sette e Ottocento, così come un simile avvicinamento è affrescato – in eleganza e grazia – dalle ultime sale di Visitors to Versailles (un’altra iniziativa del Metropolitan, ospitata nell’edificio sulla Quinta).
Allo stesso tempo esemplificano con la forza di un case study ben scelto il rapporto che legò l’artista alle oligarchie del suo secolo nell’esercizio del difficoltoso genere ritrattistico attraverso busti, monumenti, sculture isolate: da papa Clemente XIV a Ferdinando di Borbone, da Paolina Borghese a Maria Luigia d’Asburgo, passando per la Russia, la Francia, l’Inghilterra.
Il focus – che trova nelle raccolte Frick il pretesto del Washington dipinto da Gilbert Stuart, autore di alcune fra le icone più note consacrate al viso e al sembiante del primo Presidente americano – si dimostra opportuno per ragioni molteplici. Intanto perché il marmo realizzato da Canova è andato distrutto in un incendio nel giugno 1831, trascorsi appena dieci anni dal suo approdo sulle coste atlantiche: incidente devastante che ha risparmiato pochi frammenti della statua (di cui uno, inciso con la firma dell’artista, è presente nel percorso, un lirico memento carico del portato lacrimevole di una rovina romana). A fronte di una perdita irreparabile – lamentata in un coro univoco dalle voci dell’epoca – la messa a punto dell’invenzione è comunque attestata da una catena esemplare di documenti figurativi, dal fremente ‘primo pensiero’ in terracotta alle affaticate riflessioni grafiche, dallo studio anatomico ‘a nudo’ all’ultima calibratura della composizione in misure ridotte, prima di passare al gesso in scala uno a uno: circostanza non inedita per l’oeuvre canoviana, vista la ricchezza dei fondi del suo studio-museo, e però esaltata dalla perdita del capolavoro ultimo in pietra carrarina. L’esposizione è dunque necessaria nel rimettere in fila le tappe conosciute di un medesimo percorso creativo (comprendente fasi intermedie, non custodite ab origine, come lasciano intendere le tracce lasciate sui gessi dall’impiego di forme per il calco): tanto più che il museo newyorkese, forte di un prestigio internazionale consolidato anche in anni recenti, ha saputo collazionare i prestiti più fragili e per questo problematici, provenienti da Possagno o dal museo di Palazzo Braschi a Roma.
Si chiarisce così bene perché Canova – dopo la delusione del colosso dedicato a rappresentare Napoleone in veste di Marte, una figura nuda e stante, compiuta nel 1806 e accolta con freddezza dall’Imperatore – arrivasse a perfezionare una formula ‘altra’; e si spiega quanto tale processo ricorresse a una ponderata meditazione su fonti classiche diverse (soprattutto l’Agrippina dei Musei Capitolini) intesa per delineare in Washington il generale rivoltosi all’otium campestre, secondo quanto veramente successe col suo ritiro a Mount Vernon. Certo, i documenti relativi alla comanda (di cui una ricca selezione è presentata in catalogo con scrupolo filologico) ricordano che la posa seduta venne opzionata per vincoli legati alla destinazione del marmo, spazio esiguo non adatto a ospitare un’opera sviluppata in verticale: tuttavia Xavier Salomon e Mario Guderzo sottolineano, nei saggi per il volume, l’unicità di una simile scelta, di solito riservata a personaggi femminili (basterà citare i casi della Letizia Ramolino Bonaparte e di Elisa Baciocchi come Musa Polimnia).
Con in mente le osservazioni di Thomas E. Crow sulla resa del ‘virile’ e del ‘muliebre’ nell’immaginario pittorico neoclassico (lo studioso evidenziava tale dicotomica polarità in particolare nella produzione di David e in dipinti come Il Giuramento degli Orazi del 1785) ci si potrà allora chiedere se la preferenza per una postura a riposo non riguardasse ugualmente – già negli intendimenti di Canova – la definizione di una dissonante eroicità, descritta nell’avvitata silhouette di Washington; soluzione – è bene ricordarlo – in contrasto pure con quella, svettante e fiera, accolta da una precedente effigie del generale, scolpita dal francese Jean-Antoine Houdon e collocata nello State Capitol di Richmond.
Una conclusione in questo senso è suggerita dalle parole inattese e singolari riservate alla scultura da una voce ben informata, quella di Melchiorre Missirini, il quale nella sua biografia di Canova (apparsa nel 1824), ne elogiava «l’atto di gravità e di dolcezza»: come a esaltare nella statua e nel ritratto – al di là della diffusa, retorica identificazione di Washington con la tempra remissiva di Cincinnato – un’umanità più piena, una sensiblerie in tutto moderna, un coacervo contraddittorio di affetti.
È un cortocircuito perturbante, quindi, quello che obbliga l’odierno visitatore ad apprezzare la meraviglia canoviana nella soffice, delicata consistenza del gesso (laddove gli americani decantarono all’arrivo a Raleigh la nevosa, gelida compattezza del marmo italiano): perché la luce – cadendo dal soffitto nell’efficace istallazione della Frick – indugia con pazienza sulla tormentata porosità delle superfici (dalla lorica, al manto, all’epidermide tonica), quasi a riassumere l’essenza stessa della polisemica ispirazione del maestro veneto.