Quali sono le «nostre battaglie»? Quelle per difendere il diritto dei lavoratori sempre più azzerato dal backlash della globalizzazione? Di una la moltitudine a cui in Francia dà voce il movimento dei gilets jaunes, oltre la divisione destra/sinistra e fuori dai sindacati? O sono le battaglie contro la solitudine, l’instabilità, la fatica, il precariato sentimentale che del presente è alterità e complemento? Come essere in famiglia, coi proprio figli, con il compagno o la compagna, nei gesti quotidiani che sembrano semplici, appaltati all’abitudine, la cura dei figli, la spesa, una carezza e invece sono i più difficili.

C’è tutto questo, e altro in Le nostre battaglie, il film di Guillaume Senez (presentato a Cannes alla Semaine de la Critique) nel corso di un’ora e mezza, o poco più, prende più direzioni per abbandonarle come in un gioco di incastri in cui ciascun pezzo scompiglia l’ordine dei precedenti. Dal film sul lavoro, che delinea all’inizio, il regista sposta la narrazione sull’intimità dei suoi personaggi, sui loro sforzi per tenersi insieme in questo mondo e tra le curve accidentate della vita che all’improvviso fanno deragliare ogni certezza.

OLIVIER (Romain Duris) lavora in una fabbrica di vendite on line, modello Amazon, sfruttamento, diritti zero, condizioni di precariato totale. Lui è caporeparto vicino al sindacato, difende la sua squadra e si impegna per riconquistare contro i ricatti arbitrari un minimo di dignità al lavoro, anche quando di fronte ai volantini per la mobilitazione i più terrorizzati di perdere quel posto di merda che gli dà però un minimo di salario, voltano la testa. Laura, sua moglie, commessa in un negozio, ha su di sé il peso della casa, dei due figli piccoli che l’adorano; è lei che li porta a scuola, dal medico, che li segue nei compiti, sempre presente nonostante il lavoro, fragile e silenziosa nelle notti insonni, mentre Olivier arriva tardi, tra le riunioni e qualcuno di cui occuparsi.

E tanto è bravo fuori quanto è assente in casa, ignaro di ogni cosa – ricordate il protagonista di The Hurt Locker, imbattibile col mitra in Iraq, inetto di fronte al bancone dei cereali al supermercato? Non è proprio la stessa cosa, se non nell’esempio di un maschio compreso nel suo ruolo, come immagino siano quelli di cui si legge in cronaca a fronte di una tragedia familiare – tipo la madre che si uccide coi figli – dicono di non essersi mai accorti di nulla.
Laura non si uccide ma sparisce, su questo vuoto improvviso tutti devono rimodellare le proprie esistenze. E le battaglie diventano anche quelle dei bambini, Elliot e Rose, contro la paura, la distanza dal padre, il sentimento inaccettabile dell’abbandono, e la colpa – «siamo stati noi a farla andare via» – la tristezza delle notti, la complicità fraterna di farsi coraggio crescendo troppo in fretta.

E QUESTA è la parte più riuscita del film, perché Senez si allontana dagli «obblighi» della realtà per mettere insieme padri e figli e una costellazione di personaggi che condividono le stesse incertezze e la stessa fatica a restare in equilibrio, senza eroismo, con l’ironia come la sorella di Olivier, Laetitia Dosch la cui presenza è quasi liberatoria. Lì il sentimento del presente scivola fluido coi suoi conflitti che non hanno bisogno di essere riportati a tesi dimostrative per diventare più veri.