L’ultimo «re» di Messina varca i cancelli del carcere di Gazzi qualche minuto prima delle dieci di sera di giovedi 15 maggio, circondato dalla folla e illuminato dalla luce dei flash. Perché quando il re cade, tutti cercano di afferrare un pezzetto delle macerie della sua statua equestre ormai distrutta. Per Francantonio Genovese, ex sindaco, due volte deputato, nipote e figlio d’arte, politico sin da quando ha iniziato a parlare, è arrivata l’ora di fare i conti con la forza di gravità: perché quanto più in alto arrivi, tanto più fragorosa è la caduta.
La camera dei deputati ha emesso un verdetto e scritto il suo destino, votando ieri poco dopo le 18 per l’arresto, così come disposto dalla Procura messinese come misura cautelare per l’inchiesta «Corsi d’oro», che ha sollevato il coperchio sulla gestione dei corsi di formazione regionali sui quali, secondo gli inquirenti, Genovese era a capo di un’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, peculato e truffa.

Nonostante il relatore Antonio Leone di Ncd avesse detto no alla carcerazione cautelare, la giunta per le autorizzazioni a procedere prima e la camera dei deputati poi, hanno deciso: 371 voti a favore, 39 contrari, Democratici fermi sulla linea dura, grillini che questo momento l’attendevano da mesi, Forza Italia e Ncd a dare esempi di peloso garantismo. Montecitorio ha deciso che, negli atti dell’inchiesta, non ci fosse il «fumus» invocato da Genovese, non esistesse alcun complotto come vanno sussurrando i suoi fedelissimi, non ci fosse necessità di una disparità di trattamento rispetto ad un altro cittadino qualsiasi. Il che, a ben vedere, non è nemmeno vero. Che senso ha che, sulla sussistenza di reati di un parlamentare consumati al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, sia chiamata ad esprimersi una «giuria» di suoi pari? Una norma di questo tipo è nata dall’esigenza dei padri costituenti di evitare inchieste che avrebbero potuto, in tempi più turbolenti, togliere di mezzo per via giudiziaria avversari scomodi. Ma oggi? Oggi è una pratica che è incompatibile coi tempi della giustizia. Perché la richiesta di arresto nei confronti di Francantonio Genovese, come tutte le custodiali, serve ad evitare che si possa reiterare il reato, che ci si possa dare alla fuga o che si possano inquinare le prove. Tutte azioni che Genovese, avesse voluto, avrebbe agevolmente potuto compiere da quando, il 19 marzo, dalla Procura di Messina è partita la richiesta d’arresto.

Concederne gli arresti oggi, più che esigenze di custodia cautelare, è un atto punitivo. Un atto dimostrativo. E il segno delle manette incorniciato dal sorriso ferino del deputato dei 5 stelle Manlio Di Stefano ne è l’emblema. Quello e gli sguardi compiaciuti di chi, a Messina, dopo averlo osannato per anni, giovedi sera, alle dieci, attendeva fuori dal cancello del carcere di Gazzi, compiaciuto, cellulare in mano a riprendere la scena.

Genovese si è costituito, ed ha passato la sua prima notte in una cella singola nell’infermeria del carcere. Come un re che cade.

E come lui, cade e si frantuma il Partito democratico a Messina, diviso tra i renziani della prima ora che da sempre rappresentano la spina nel fianco per l’ortodossia genovesiana pur non avendo i voti per contrastarlo, e l’ortodossia genovesiana che ha i voti ed i metodi per procurarseli, ma non più il consenso. Quello no, quello si è esaurito un lunedi di metà giugno dell’anno scorso, un lunedi in cui una città da sempre intimamente conservatrice, all’improvviso si riscopre pacifista, no pontista, anarcoinsurrezionalista e incorona sindaco Renato Accorinti pur di fare uno sgarbo a Francantonio Genovese ed al “suo” candidato, Felice Calabrò. “Suo” perché, a Messina, Pd e Francantonio Genovese sono sinonimi; le ventimila preferenze alle parlamentarie parlano chiaro e sono diventate ormai proverbiali. Era necessario curarle letteralmente una per una, per un uomo che, smettesse di lavorare domani, probabilmente potrebbe assicurare una vita dignitosa alle sue generazioni future fino alla quarta? A vivere a Messina, la risposta sarebbe scontata. Sì. Certamente. Un’assunzione in una coop, una segnalazione a chi di dovere, uno scavallamento delle graduatorie per una casa popolare, anche solo un cassonetto da collocare sotto casa, giusto per evitare di attraversare la strada col sacchetto in mano, sposta una quantità di voti altrove inimmaginabile. Lo sa bene l’esercito di consiglieri che del generale Francantonio Genovese sono i marescialli, i sergenti, i caporali, i soldati semplici. Gli alti ufficiali no, quelli sono vittime dell’ambizione di Genovese.

Un’ambizione per la quale l’ex sindaco ha trascinato con sé la moglie Chiara Schirò e tutti i suoi più stretti collaboratori: gente che, come parecchi che oggi in città guardano dall’altra parte fischiettando e facendo finta di niente, a Francantonio Genovese, al suo «sistema», deve tutto: carriere politiche, posti di sottogoverno, assunzioni in quota, prestigio sociale, conti in banca. Tutto. Perché dallo zio pluriministro democristiano Nino Gullotti, Francantonio Genovese ha imparato l‘arte di amministrare facendo contenti tutti. Ad attenderlo all’arrivo a Messina, giovedi sera, erano in molti, ululanti, a darsi di gomito, ad accanirsi a cadavere ancora caldo. E almeno una buona metà di loro faceva la fila, anni fa, dietro la sua segreteria elettorale in via Primo Settembre.
Almeno metà di loro presidiava la porta del suo ufficio a palazzo Zanca, quell’ufficio in cui, da sindaco, metteva piede alle sei e mezza di mattina e ne usciva fuori alle otto di sera, negandosi a nessuno, sempre disponibile, sempre col bilancino in una mano ed il manuale Cencelli nell’altra. E fuori il codazzo di questuanti. Molti dei quali, oggi, non attendevano altro che la Bmw X6 color bronzo di Nino Favazzo, legale di Genovese, scendesse dalla passerella di una delle navi traghetto di cui è comproprietario in quanto azionista di Caronte&Tourist, con dentro il deputato caduto in bassa fortuna e destinato al carcere dopo un rapido passaggio nella villa di famiglia per un bacio ai figli e qualcosa da mettere dentro la valigia. Tutti ad osservare la scena, per un pezzetto delle macerie della statua che cade e si frantuma.

Cosa resta del potere politico a Messina? Poco, quasi niente. Col Pd che, da domani, senza guida diventerà una guerra tra bande, col centrodestra dimezzato nei numeri e azzerato nelle personalità dopo l’uscita di scena di Giuseppe Buzzanca, con la troppo peculare esperienza di Renato Accorinti, di personalità di spicco c’è giusto Gianpiero D’Alia, ex ministro del governo presieduto da Enrico Letta e presidente dell’Udc, il partito che non c’è. Se non fosse che, delle sorti messinesi, D’Alia non se ne è mai granché interessato. Forse perché, come disse un suo ex collega di partito, «la fatica lo disturba», e fare politica nella città dello Stretto, Genovese insegna, è una faticaccia. Una faticaccia ingrata. Che ogni tanto, incidentalmente, termina a Gazzi.