Benyamin Netanyahu prova ad evitare il peggio. Il suo avvocato sta cercando in ogni modo di contenere la fuga di notizie dal dossier del “bakbuk gate” (“bottiglia-gate”). Ma per il premier israeliano non sarà facile uscire indenne dallo scandalo che vede per protagonista la (troppo spesso) criticata moglie Sara. Una vicenda che potrebbe limitare le chance di successo del suo partito, il Likud, a un mese e mezzo dal voto. Solo ieri, secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Haaretz, il Likud sarebbe tornato un paio di seggi davanti a “Blocco Sionista”, la lista composta dal Partito laburista di Isaac Herzog e dal partito HaTnua dell’ex ministra della giustizia Tzipi Livni. Il “pericolo” di un testa a testa fino al 17 marzo preoccupa la destra. Lo dimostra l’intenzione del Likud di buttarla in bagarre. Il partito di maggioranza relativa è passato all’offensiva. Sostiene che il “bakbuk-gate” non sarebbe altro che una astuta iniziativa di diffamazione orchestrata dalle opposizioni per mandare a casa Netanyahu. Un ministro ha addirittura riferito di «finanziamenti provenienti dall’estero» e destinati alla sinistra allo scopo di far crollare il premier. La campagna elettorale si fa sporca, senza esclusione di colpi, notava ieri il giornale online “Times of Israel”. E il “bakbuk gate” sarà il punto centrale di questa lotta condotta con ogni arma disponibile.

 

Il “bottiglia-gate” si deve a Meni Naftali, l’uomo che ha gestito la residenza di Stato del primo ministro tra il 2011 e il 2012. Naftali sostiene che Sara Netanyahu – già in passato al centro di accuse per il suo comportamento e per il maltrattamento del personale di servizio – pretendeva che i suoi assistenti riportassero i vuoti a rendere al supermercato e le consegnassero i 10 centesimi del deposito. Fin qui nulla di strano. Ma quelle bottiglie erano state acquistate con i soldi dei contribuenti israeliani. Secondo quanto riferiscono i media locali, la moglie del premier sarebbe riuscita a mettersi in tasca almeno 4.000 shekel, poco più di 900 euro. Secondo altre fonti la somma sarebbe sensibilmente più alta.

 

Il premier nega, difende la moglie, respinge le accuse. Il suo avvocato ha fatto sapere che Sara Netanyahu ha restituito allo Stato le somme raccolte nel 2013 con i vuoti a rendere. Ma lo scandalo si è allargato. Alte risulterebbero anche le spese, sempre con fondi pubblici, per l’acquisto, di vino e soft drink da parte dei coniugi Netanyahu. Pare che a casa del premier si consumi in media una bottiglia di vino al giorno. Troppo, poco? Dipende dai punti di vista. Non è un’opinione invece che quelle migliaia di euro spese per il vino appartengano al contribuente. Peraltro la lista delle spese pubbliche per la famiglia del primo ministro fino a poco tempo fa comprendeva 2000 euro l’anno per il gelato. Domenica sera il procuratore dello stato Yehuda Weinstein ha chiesto al revisore del conti Yosef Shapira di passargli il dossier con le informazioni sulle spese nella residenza di Stato del premier e sulla possibile appropriazione di fondi pubblici da parte di Sara Netanyahu. Dovesse Weinstein considerare concrete le accuse, nei confronti del primo ministro israeliano sarebbe avviata una indagine formale. Ma al momento pochi credono che una eventuale inchiesta sul “bakbuk-gate” potrà andare fino in fondo con la campagna elettorale in corso.

 

Anche nei Territori occupati si comincia a seguire la vicenda. L’uomo che i palestinesi vorrebbero vedere sul banco degli imputati, davanti ai giudici della Corte Penale Internazionale, rischia (si fa per dire) di terminare la sua carriera politica per uno scandaletto da poche migliaia di euro. Pochi però ci credono e si fanno illusioni. Netanyahu resta, per ora, ben saldo in sella e non ha mancato anche in questi ultimi giorni di far “regali” ai palestinesi, come il rilancio della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E come il mese scorso, il premier israeliano ha bloccato il trasferimento all’Anp di 100 milioni di dollari palestinesi raccolti a gennaio con dazi doganali per conto dell’Anp, in risposta alla decisione presa dal presidente Abu Mazen di aderire alla Cpi. Israele aveva già congelato un mese fa oltre 120 milioni di dollari palestinesi. Il quotidiano Israel HaYom, vicino al premier, ha scritto ieri che i congelamenti mensili proseguiranno fino quando Israele avrà deciso una politica definitiva dopo che «Abu Mazen ha varcato una linea rossa rivolgendosi alla Cpi, per crimini di guerra asseritamente compiuti da Israele a Gaza e in Cisgiordania». Una punizione devastante per le casse palestinesi e soprattutto per decine di migliaia di dipendenti pubblici, molti dei quali ora sono senza stipendio. Si aggiungono ai circa 50 mila ex impiegati del governo di Hamas a Gaza lasciati senza reddito da Abu Mazen dopo la formazione del governo palestinese di unità nazionale.