Né le nomine, né il gioco delle coalizioni, né l’obbligo del voto congiunto, né la cannibalizzazione delle liste superiori all’1 per cento. Nessun artificio elettorale è riuscito a produrre un quadro politico tale da assicurare la cosiddetta governabilità, o meglio, la formazione di un governo.

E dunque cosa ne facciamo ora della “conoscenza preventiva delle coalizioni”, de “la–sera-delle-elezioni-si-deve-sapere-chi-vince”, insomma del mantra della “governabilità”?

Per fermare lo tsunami della ripulsa verso una dirigenza politica sedicente arrogante ed ignorante ci dobbiamo chiedere cosa fare per rigenerare il Paese e come. Domanda che, con molti, articolati e condivisibili argomenti, si fanno sul manifesto Luciana Castellina e Alberto Asor Rosa, i primi a intervenire nel dibattito post elettorale.

SI DOVREBBE DIRE CHE la soluzione c’è già ed è rappresentata dalla affermazione del Movimento 5Stelle, con una delegazione parlamentare esente da compromissioni con gestioni fallimentari se non fraudolente, che si propone per il governo e chiede di essere messa alla prova.

Non basta. E’ una soluzione di corto respiro politico se si vuole guardare alla lezione dell’ultimo quarto di secolo. Il piano ha iniziato ad inclinarsi quando si è pensato ad un innesto innaturale, quello di leggi elettorali maggioritarie e con liste bloccate nel corpo di una Costituzione pensata e costruita per modelli elettorali proporzionali con forte radicamento territoriale.

CIÒ È AVVENUTO PERCHÉ ALL’ALBA degli anni 90 del secolo scorso, le istituzioni del paese erano infestate da ladri e corrotti e, in quel contesto, un partito azienda vince le elezioni e prende il potere. Avrebbe potuto semplicemente espellere dal sistema i ladri ed i corrotti e governare meglio, ma la genia politica venuta fuori da questa accecante catarsi non era diversa. Invece di cambiare le persone hanno ritenuto più sicuro cambiare il sistema dicendo agli italiani che il marcio stava li e che semplicemente modificando il meccanismo elettorale tutto si sarebbe risolto. Manfrina ipocrita e gattopardesca per la conservazione.

Avendo una cultura istituzionale che non contempla la convinzione delle proprie idee ma anche la disponibilità ad essere convinti da quelle altrui, i mandarini di questa nuova stagione politica inventano un sistema elettorale che elimina totalmente il cardine sul quale si era retto sino ad allora il sistema istituzionale italiano, quello pensato dall’Assemblea Costituente come assicurazione contro l’uomo solo al comando, e cioè il legame stretto e diretto tra il popolo ed i suoi rappresentanti attraverso il voto di preferenza e la composizione del parlamento in maniera proporzionale al consenso espresso dagli elettori.

MA QUESTO SISTEMA COMPORTA una fatica enorme, quella di fare politica, di discutere, di esprimere pensiero convincente, idee affascinanti, di confutare quelli degli altri, incontrare persone, guardarle negli occhi, farsi carico dei loro problemi. Un compito improbo, fastidioso ed inutile per chi non ha tempo da perdere dovendo badare ai fatti propri facendo finta di curare, in parlamento, quelli di tutti.

E così inventano una legge per risolvere il problema: i parlamentari non li elegge più il popolo ma il capo del partito e via, il leader sarà presidente del consiglio ed avrà la fiducia di chi ha nominato lui stesso. Problema risolto. E invece no, come dimostra la storia di questi ultimi anni e quella degli ultimi giorni.

Stanno lì, le risposte alle domande suscitate dall’analisi di Luciana Castellina. Non c’è più vita sociale intesa come confronto politico: perché? Non ci si incontra più alle 7 di sera al partito o la dopolavoro: come mai? Non ci sono più le sedi dei partiti: perché?

Non abbiamo progetti comuni: perché? La sinistra che credeva ed ha praticato queste prassi respirandone i valori si è staccata dal Pd ha evitato il disastro ma è rimasta anch’essa senza voti: come mai?

OGGI CHE IL DESTINO POLITICO dei parlamentari dipende solo dal capo, come possiamo pensare che costoro possano setacciare il terreno, costruire rapporti, aprire luoghi di confronto, cenacoli, circoli culturali, frequentare sedi politiche, aprire sezioni cioè fare tutto ciò che prima significava selezionare il ceto politico, e crescere la classe dirigente.

NON SI FA PIÙ NON PERCHÉ SIAmo cambiati noi, o la società. E’ semplicemente cambiata la legge elettorale. E siccome la politica è l’attività umana cui ci si dedica per organizzare al meglio la vita delle comunità, ma è anche la ricerca dei modi giusti per consentire ad alcuni di governare, tutto – ma proprio tutto – dipende del metodo di selezione della classe dirigente. Per censo? Per nascita? Per disponibilità economiche? Per classe sociale? Per genere? Per forza militare?

Noi abbiamo scelto la democrazia ma essa presuppone una connessione – sentimentale e concreta – tra il popolo ed il suo rappresentante. Se questa manca perché la legge elettorale, cioè il metodo di scelta dell’organo massimo dello stato assegna la scelta ad un capo, la democrazia si traduce in oligarchia, e poi in regime.

QUI STA, QUINDI ED INFINE, l’insufficienza della risposta rappresentata dalle facce e dalle mani pulite dei pentastellati. Il peccato originale è nel metodo. Essi hanno, oggi la forza di un responso elettorale, ma domani o più tardi e comunque inevitabilmente, non potranno vantare la forza di un consenso basato sulla condivisione di pensieri ed azioni politiche, perché non sono stati scelti singolarmente dagli elettori, e questo vulnus prima o poi, li (e ci) perderà.

A mali estremi estremi rimedi: la Corte Costituzionale investita (come sarà) dell’esame del cosiddetto Rosatellum potrebbe disegnare, con una sentenza “interpretativa” una nuova legge elettorale o, quantomeno, fornire al Parlamento una sorta di road map legislativa per una legge elettorale proporzionale e con le preferenze, tale da consentire la formazione di un Parlamento finalmente rappresentativo del paese reale e non più rappresentato dalla “casta”.