Tra poco più di due settimane il referendum chiamerà «il popolo» a decidere sul proprio Parlamento. Un Parlamento – non lo scopriamo oggi – ampiamente degradato nella sua composizione antropologico-culturale, e se voteremo No al taglio dei parlamentari non sarà certo perché ne apprezziamo la statura, quanto piuttosto perché convinti che la riduzione del loro numero ne peggiorerà ulteriormente la qualità e il grado di asservimento.

Ma che «popolo» sarà quello chiamato a votare? E’ questo il vero – drammatico – interrogativo.

«Noi siamo il popolo», proclamava, con uno striscione a lettere cubitali, il migliaio di imbecilli radunatisi a Roma davanti alla Bocca della verità. Radunati a dar vita allo spettacolo disgustoso di tutte le più assurde allucinazioni e all’ostentazione dei peggiori sentimenti di asocialità e narcisistica irresponsabilità. E potremmo in qualche modo rassicurarci con la scontata considerazione che quella non era di certo la verità sul «sentire popolare» ma una sua inguardabile caricatura.

Tuttavia se vogliamo continuare a considerare le piazze e le strade come spazi nei quali quel sentire si mostra, così come questo scorcio d’estate segnato dalla coda del Covid19 ce li ha rivelati, la sensazione che un ulteriore gradino sia stato sceso nel progressivo declino dei «sentimenti morali» della nazione non si attenua.

Anzi. Tira un’aria maligna di voglia di negazione dell’altro (della responsabilità verso l’altro), di autoaffermazione individuale spinta fino a una concezione blasfema della libertà come scioglimento di ogni limite, di rottura del valore di legame (tra persone, tra gruppi, tra generazioni, tra pari e tra diversi…), tanto estrema da far considerare il piccolo fastidio d’indossare una mascherina come un sacrificio insopportabile se non un attentato ai propri diritti costituzionali.

Eppure il virus dovrebbe averci insegnato, con la perentorietà e la ferocia del bios, quanto stretta sia la nostra reciproca dipendenza: quanto la salute (la vita) di ognuno di noi dipenda dal comportamento del nostro prossimo, e quanto la sopravvivenza del prossimo dipenda dal nostro.

Invece, dopo un primo periodo in cui è prevalso un atteggiamento di massa virtuoso – quello centrale del lockdown dove la paura del morbo e il timore della legge hanno prodotto una forma di, più o meno forzata, responsabilità collettiva – è come se nel «liberi tutti» estivo avesse fatto irruzione un vitalismo malato. Una voglia di assembramento tra solitudini in cui la prossimità contagiosa appare il contrario della solidarietà, nell’indifferenza al rischio reciproco, prolungamento di una condizione esistenziale di massa precedente all’epidemia ma ora resa più cattiva dalla realtà del pericolo.

L’abbiamo vista, questa evaporazione dei già bassi livelli di «etica della responsabilità», nei punti focali del divertimento estivo, trasversalmente, da un capo all’altro della piramide sociale, nelle discoteche bilionarie della Costa Smeralda come in quelle cheap della costa adriatica, lo stesso clima da suburra.

Lo stesso imbarbarimento dei corpi senza parole, rappresentazione plastica della trasformazione dei vecchi luoghi della socialità in non-luoghi dello sballo, e della decomposizione delle antiche classi sociali – in alto quanto resta della vecchia borghesia riconvertita in plebe arricchita, in basso i residui delle classi subalterne riconfigurate in sottoproletariato -, di corpi sociali disgregati che tuttavia pretendono pur sempre di presentarsi come espressioni del «popolare».

Intendiamoci. Non tutto il Paese è così, e non tutti (ci mancherebbe) partecipano di questa patologia regressiva. Esistono, e resistono, a macchia di leopardo, aree virtuose di mutuo aiuto e di solidarietà (spesso riattivate e rivalorizzate dall’emergenza). Persone e gruppi che «restano umani».

Ma l’«altro sentire» è forte, diffuso e contagioso, con un «Rt» paragonabile a quello del virus se, almeno a dar retta ai sondaggi elettorali, resta così ampia la fascia di consenso per le stesse forze politiche che di quelle passioni tristi hanno fatto una bandiera. Anzi, che le usano per definirsi «popolari» nel momento in cui mimano e quotano alla propria borsa i peggiori sentimenti di un popolo non più popolo.

Per quelli come Salvini, tanto per non far nomi, che nei comizi moltiplicano i «selfie» a viso scoperto. Che flirtano con i «no vax» e l’estrema destra negazionista. E che se avessero governato tra marzo e giugno ci avrebbero probabilmente portati al livello del Brasile.

D’altra parte, se spostiamo lo sguardo dal Paese reale a quello legale – se guardiamo tra i banchi del «famigerato» Parlamento, tra le stesse file della maggioranza che regge il governo -, è difficile non cogliervi la medesima tendenza all’irresponsabilità, all’autoreferenzialità atomistica, spinta fino all’uso seriale del dispetto e dello sgambetto pur di riaffermare un grammo di microidentità separata, giocando col fuoco mentre si brancola sull’orlo dell’abisso. Qui davvero si direbbe che «uno vale uno»… contro tutti. O a dispetto di tutti.

Questo per dire che il 20 settembre non ci potremo lavare la coscienza con un semplice voto, sia pur giusto e motivato.

Difendere il parlamentarismo costituzionale è un’intenzione nobile. Ma sappiamo che difendiamo un’idea, nella sua realizzazione già ampiamente in pezzi.

Difenderci davvero dalla disgregazione sociale in corso e dalla parallela catastrofe del senso (non solo in politica) è un impegno di lungo periodo, di ricostruzione dei fondamenti morali e culturali, oltre che materiali, del vivere associato, che imporrebbe a tutti, in primo luogo a chi scrive e riflette (e fa opinione e informazione), di uscire dal relativismo dell’ultimo ciclo.

E non temere di tornare a dire quanto si ritiene «giusto» e quanto no, anche a costo dell’impopolarità. Per contrapporre ai «populismi senza popolo» che popolari si autoproclamano una diversa, più vera, idea di comunità politica e umana.