Le convulsioni dei gruppi parlamentari del M5S, dopo il varo del governo Draghi, hanno messo in ombra quel che è, invece, probabilmente la conseguenza di più lungo periodo del voto degli attivisti del Movimento sulla piattaforma Rousseau: la fine di ogni illusione riguardante la democrazia diretta digitale.

Nelle intenzioni di chi lo ha ideato e di chi oggi ne alimenta il continuo sviluppo, Rousseau, invero, non è solo una piattaforma per il voto digitale ma un “ecosistema” nel quale opera un’intera comunità politica e ogni individuo della “specie” può accedere a informazioni, proporre provvedimenti e leggi, interagire con i propri rappresentanti a ogni livello istituzionale. Tuttavia il core business di Rousseau è il voto digitale, come mostrano i dati pubblicati con evidenza sullo stesso sito: ad oggi 347 votazioni con oltre 7 milioni di preferenze espresse da circa 120 mila attivisti del Movimento.

Nonostante le ingenti risorse investite dall’Associazione Rousseau – che, ricordiamo, non è proprietà del Movimento ma di Davide Casaleggio e altri – il voto su piattaforma digitale non sarà mai del tutto “personale ed eguale, libero e segreto” come vuole l’art. 48 della Costituzione. In particolare, non c’è notaio che possa garantire la corrispondenza fra risultati e voti espressi, perché questo implicherebbe la sua capacità di ispezionare non l’algoritmo di calcolo ma ogni frammento di software in esecuzione durante le operazioni di identificazione del votante, di acquisizione del voto, di scissione delle informazioni voto/votante (operazione questa volta a garantire l’anonimato), di raccolta e di riepilogo dei risultati.

Sono obiezioni già ampiamente note che, tuttavia, possono essere superate e in effetti sono state superate, pur nell’ambito di un’associazione fra privati, grazie al rapporto fiduciario che si è stabilito fra utenti e amministratori del sistema. L’ultima consultazione degli attivisti a cinque stelle su Rousseau marca, però, un passaggio nuovo che mette in evidenza altre criticità del voto digitale.

È apparso chiaro, come mai forse prima, che chi non solo decide se e quando chiamare al voto, ma soprattutto formula la domanda da sottoporre al corpo elettorale, ha in mano un’arma formidabile di persuasione e di condizionamento. Il risultato del 59% di sì ad un nuovo governo guidato da Mario Draghi non può, infatti, considerarsi slegato dal quesito posto: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”.

Messa così la domanda, la risposta difficilmente poteva tradire le aspettative del suo estensore, il Garante, forse memore che in un’altra circostanza gli attivisti gli avevano girato le spalle. Era il 13 gennaio 2014 quando Grillo e Casaleggio, nettamente contrari a un emendamento presentato a un disegno di legge in discussione al Senato da due senatori del Movimento, Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella, che proponeva la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina, chiamarono gli attivisti alla consultazione, sicuri di spuntarla. Contro ogni previsione i sì all’emendamento uscirono nettamente in vantaggio, 15.839 contro 9.093 no.

Si parlò allora, nell’immediatezza, di grande vittoria della democrazia diretta ma in realtà la cosa non portò poi a nulla e l’assurdo, inutile e dannoso “reato di clandestinità” (art.10 bis T.U. 286/98) è ancora oggi in vita.

I permanenti dubbi sulla trasparenza e la sicurezza del voto in rete, uniti alla certezza che l’opportunità e la scelta del quesito siano fortemente condizionanti e che persino la volontà espressa, quando serve, possa essere ignorata, hanno spento, forse definitivamente, il sogno dei padri italiani della democrazia diretta digitale.