«Ancora qui siamo ancora qui/ e tu ci sei e non ci sei». Sono due versi tratti dalla raccolta di poesie di Mario Marchionne, L’affacciarsi lieve del giorno (Manni, pp. 95, euro 13). Due versi percussivi che rivendicano una consistenza mondana sempre però minacciata e precaria. Sia nella dimensione domestica, intersoggettiva, della prima sezione della raccolta che dà il titolo al volume, sia in quella corale di piani temporali che si intrecciano, della seconda, Dialogo di Michelangelo e di un migrante, dove irrompono lacerati e laceranti i corpi «prigionieri» dei marmi michelangioleschi e quelli, altrettanto annichiliti, dei migranti trascinati dai mari sulle nostre terre ostili.

«Una scrittura dubitativa, attonita, stupita», scrive Tommaso Di Francesco nella prefazione, in cui «la levità, scelta come mezzo e finalità, rappresenta una sorta di condanna dalla quale è difficile uscire». Perché in tutta la prima sezione la natura prevalentemente marina che avvolge e confonde il soggetto e che è figura di integrazione e pienezza di fronte a una presenza femminile cangiante che appare e scompare, diventa però, insieme, «fango», «buio inquieto», «toppe» che nascondono sogni. È una condizione tipica di tanta poesia novecentesca in cui domina un procedimento analogico di ascendenza simbolista ed ermetica, fatto di giustapposizioni e ripetizioni, di cortocircuiti semantici e sonori che puntano a un registro evocativo, allusivo, che si vuole antinarrativo ma che però, nella poesia di Marchionne, nasconde anche una volontà transitiva, vuole dire e comunicare il desiderio della relazione, dell’incontro, dell’amore.

Questa polarità del soggetto è detta rinunciando quasi completamente alla punteggiatura – compaiono solo qua e là interrogativi e puntini di sospensione – e si svolge ricorrendo a lunghe arcate metriche, con andamenti talvolta «cantabili» dati prevalentemente dai novenari, concluse solo dal punto finale. Una poesia che non si vuole preziosa, ma che si impreziosisce di improvvisi intarsi di un lessico «suggestivo» e ricercato: «incantucciarsi tra i monti», «l’iride lunare incistata», «svolando si frastagliò il sentiero», «agguanciato alla luna».

Domina in tutta la prima parte del libro un trittico – soggetto/donna/natura – segnato da continui sussulti del cuore («nello squarcio dell’animo»), dentro habitat che a tratti richiamano la sospesa metafisica di un De Chirico. Dalla condizione di precarietà esistenziale del soggetto occidentale bianco, si passa alla condizione di precarietà tragica e mortale del soggetto non occidentale nero, di colui che viene nominato per negazione e che però, nella poesia di Marchionne, che «si immedesima – scrive Di Francesco – con chi è debole e sconfitto e cambia registro e timbro affrontando di petto la durezza che lo circonda», acquista dignità umana, diviene portatore di memorie e desideri, seppure annichilito in un climax discendente fatto di una esibita tonalità dimessa, colloquiale, cantabile: «Quell’aspro chiarore cos’è?/ L’alba del corpo che geme/ che fugge che ama/fasciato nel mare/ blu delle stelle».