Un presidio fisso di carabinieri a sbarrare l’ingresso della cooperativa Il sorriso, qualche vetro che porta ancora i segni delle sassaiole del novembre scorso e il razzismo quotidiano tornato a essere luogo comune da panchina o da bar. Tra i casermoni di via Morandi la vita è apparentemente tornata a scorrere come prima, i riflettori mediatici si sono spenti e l’autunno caldo dell’estrema destra romana sembra essersi improvvisamente raffreddato in concomitanza con le inchieste di Mafia capitale, piccolo ma emblematico segnale di quanto di torbido e indicibile si nascondeva dietro le presunte insurrezioni delle periferie inquiete.

Oggi a Tor Sapienza nessuno si sogna più di attaccare i rifugiati africani che hanno deciso di restare nel centro di accoglienza preso a sassate appena tre mesi fa, i rom continuano a occupare la chiesa sconsacrata di San Cirillo e un prete ortodosso dice messa per i suoi concittadini balcanici in un garage occupato, proprio al centro del quadrilatero di palazzoni anni Settanta che sono diventati la croce di un quartiere costruito negli anni Venti per dare un tetto agli operai delle fabbriche che proprio allora cominciavano a nascere. Uno stradone a sei corsie divide il ghetto, sulla collina, dalla Tor Sapienza storica, nata su un agro che un tempo era il granaio di Roma. Un ponte di legno intitolato a Ilaria Alpi consente di passare dall’altra parte e finisce dritto davanti a un complesso di edifici firmato Caltagirone rimasto invenduto a causa della crisi.
Il centro di accoglienza per rifugiati porta ancora i segni dell’assalto e delle barricate improvvisate, il piano dove dormivano i minorenni trasformati in capro espiatorio dell’insofferenza sociale è stato evacuato e, tra gli immigrati, ne rimangono una trentina e nessun minore. Amadou Diallo, 35 anni, è il più anziano. Viene dalla Mauritania, è passato attraverso la Grecia prima di finire a Milano e infine qui a Tor Sapienza, e ancora non riesce a capacitarsi dei motivi per cui lui e gli altri immigrati africani sono stati presi di mira.

Qualche idea su cosa sia accaduto se l’è fatta Gabriella Errico, presidente del Sorriso, che nei giorni successivi agli arresti della procura di Roma nell’inchiesta sul cosiddetto «mondo di mezzo» ha denunciato le pressioni di Salvatore Buzzi, il «ras» delle cooperative sociali capitoline, per entrare anche nell’affare Tor Sapienza. Se il pogrom sia stato pilotato o meno non è ancora chiaro, però è evidente che quello che è accaduto in quei giorni non è passato senza lasciare scorie tra gli abitanti di via Morandi.

Nel centro culturale che si trova nella “spina” del quadrilatero sono riuniti un pugno di cittadini che si contrappongono ai più esagitati e si pongono il problema di come riconquistare un’egemonia culturale che eradichi le pulsioni xenofobe. La questione è in tutta evidenza politica, e loro non si tirano indietro. Una donna ricorda «quando siamo arrivati qui, nel ’74, non c’era nulla e ci siamo messi a fare la lotta per l’autoriduzione delle bollette elettriche». C’è chi dice che «bisogna ricreare una comunità», chi sostiene che il problema principale è la disoccupazione e il sottoproletariato, in queste condizioni, finisce dritto a ingrossare le fila della criminalità. Qualcuno ritiene che, con la chiusura delle fabbriche, «la classe operaia si è disgregata e i giovani senza lavoro finiscono per prendersela con i più poveri».

Il linguaggio non deve stupire e neppure il riferimento popolare a categorie gramsciane. Nel raccontare la faglia interetnica che ha attraversato l’autunno delle borgate romane, ci si è dimenticati di ricordare che a Tor Sapienza la sinistra aveva un forte radicamento e la coscienza operaia è ancora viva nonostante la crisi. Il professor Nicola Marcucci, che incontro durante una passeggiata serale, vive da queste parti dal 1958. È considerato la memoria storica del quartiere e ne ricorda le origini antifasciste: a fondarlo fu Michele Testa, un ferroviere sannita formatosi alla scuola socialista napoletana di Arturo Labriola. Tra il 1920 e il 1922 Testa costituì la prima cooperativa per edificare questo pezzo di agro romano, prima di essere arrestato, torturato e mandato al confino a Padula, nel salernitano, dal regime di Mussolini, al quale aveva dedicato una profetica battuta: «A te t’appicano». Il problema, ammette Marcucci, è che con le fabbriche che chiudono, i servizi che saltano e la disoccupazione giovanile al 70 per cento si incrina pure il collante sociale.
Proprio a Michele Testa ha dedicato il suo intervento in piazza, nei giorni successivi al tentato pogrom, Rita Mattei, la poetessa del quartiere. Dando dimostrazione di grande coraggio nel momento di maggiore tensione, la donna aveva esordito ricordando come, «nelle intenzioni di Michele Testa, la borgata nacque come oasi di pace», per poi contestare l’affermazione «Tor Sapienza ha vinto» di chi pensava che la protesta, seppur scomposta, avesse avuto il merito di porre il problema del degrado e dell’abbandono del quartiere all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica. «Cosa dite?», aveva risposto indignata, «Vittoria sarebbe lottare e ottenere il fotovoltaico che darebbe la luce a via Morandi o spezzare la filiera dei roghi tossici». Un discorso che non è finito in televisione ed è rimasto sommerso dalla retorica della guerra tra poveri.
Rita Mattei non è nuova a exploit del genere. Già nel 1976 aveva organizzato, nella piazza di Tor Sapienza, una riunione di giovani contro il degrado. Da lì nacque l’idea di occupare un casale che sarà poi intitolato, manco a dirlo, a Michele Testa e che ospiterà l’omonima associazione. Con lo sguardo rivolto ai palazzoni di viale Morandi, afferma sconsolata: «Diciamoci la verità, finché è stato in vita il Pci questo quartiere ha tenuto. Abbiamo creato un impianto sportivo, fatto la battaglia per il pronto soccorso, creato il centro culturale. Poi è cambiato tutto».

«Bisognerebbe ricordare che a Tor Sapienza siamo stati i primi ad accogliere gli stranieri», mi dice con una battuta Alfredo di Fante, uno dei fondatori della prima Agenzia di quartiere della capitale. Accadde nel 1457, in occasione di una pestilenza, quando l’Istituto di San Girolamo a Perugia, esperto nell’arte medica, pensò di inviare nell’agro romano un gruppo di studenti, ospiti di un casale di proprietà del cardinale Domenico Pantagati, detto Capranica, per capire per quale motivo la peste da quelle parti non aveva attecchito.

Oggi naturalmente i problemi sono ben altri, ma Di Fante è convinto che nonostante tutto il tessuto sociale sia sano. A riprova della sua tesi elenca le 23 associazioni che compongono l’Agenzia di quartiere, nata nel 2004 per dare forza e rappresentanza agli abitanti di un «paese nella città», vaso di coccio tra i più affollati suburbi della capitale. I numeri testimoniano di una società civile attiva e lontana anni luce dalle immagini, che hanno fatto il giro del mondo, dell’assalto al centro di accoglienza per i rifugiati, con gli incappucciati spuntati da chissà dove e organizzati da chissà chi, gli inviti a bruciare i neri, le leggende metropolitane che si rincorrevano ad alimentare i pregiudizi e a fomentare le violenze, come fossimo precipitati a New Orleans nel 1891 e non ci trovassimo invece nell’Italia del 2014.

Per Alfredo di Fante «Tor Sapienza è come un malato a cui è venuta la tosse». Sono infatti venute al pettine, secondo lui, le magagne di una «politica scellerata» che nell’ultimo decennio ha soltanto cavalcato le emergenze, scaricandole su un territorio troppo piccolo per poterle contenere e risolvere tutte. «Nonostante tutto questo territorio le ha sempre assimilate bene», conclude.

Ne è un esempio il complesso scolastico intitolato a Gioacchino Gesmundo, docente e partigiano, ucciso alle Fosse Ardeatine. Si tratta di una scuola che ospita molti figli di immigrati ma soprattutto il più alto numero di bambini rom della capitale, a causa della concentrazione di campi nella zona. Nello stesso tempo, si tratta di un istituto con un elevato tasso di integrazione e una bassa dispersione scolastica. La dirigente scolastica Marcella Zarra è qui da un anno e si dice «colpita dalla mancanza di problemi», sorprendentemente inferiori, a suo dire, rispetto a quelli che si era trovata ad affrontare nel precedente istituto da lei guidato, nel più centrale Testaccio, «un quartiere da cui si scappa». Su 1200 alunni, alla Gesmundo ci sono circa duecento stranieri e un centinaio di rom, tutti perfettamente inseriti grazie ad attività personalizzate per gli studenti, progetti per le aree a rischio e corsi pomeridiani di lingua rumena.

Tutto ciò si trova a fare i conti con le infiltrazioni malavitose e dell’estrema destra, i cui interessi spesso hanno più di un punto di contatto. Il complesso di via Morandi è una delle più importanti piazze di spaccio romane, i palazzi soffrono di una evidente mancanza di manutenzione e la “spina” centrale, dove sarebbero dovute sorgere attività commerciali e servizi, è oggi abbandonata e occupata da senza casa. L’assenza di lavoro e di prospettive fa il resto, su questa collina che fa da pendant a un’altra analoga periferia, quella del Corviale, il palazzo lungo un chilometro assurto a simbolo del fallimento delle utopie urbanistiche degli anni Settanta. Dei 16.500 abitanti di Tor Sapienza, nel quadrilatero di via Morandi ne vivono 3.800, tutti in un unico edificio. È qui che è esplosa la violenza contro gli ultimi arrivati ed è qui che il sindaco Ignazio Marino è venuto a sfidare fischi e insulti per promettere che il Comune si sarebbe impegnato a far fronte al degrado.

A incontrarlo c’era pure Rita Mattei, che gli ha chiesto poche cose concrete per voltare pagina: «Ridare vita alla spina di via Morandi, far ritornare le biblioteche e i presidi dell’amministrazione, fare qualcosa per i ragazzi che qui sono abbandonati prima di tutto dalle istituzioni». In buona sostanza, lo ha invitato a «recuperare lo spirito di Michele Testa».

1 – continua