«Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto i muscoli del viso cominciarono a incresparsi (…). Sotto i tratti originali si generava una nuova sostanza: non un volto privo di sesso, come avrebbe voluto Arón, ma una nuova realtà, svincolata dall’obbligo di assomigliare a un volto».
Così, con l’immagine di un viso femminile che, per azione del vetriolo lanciato da una mano maschile, si trasforma in un paesaggio in perpetua evoluzione, «governato da leggi sconosciute», comincia Il deserto (La Nuova Frontiera, pp. 251 euro17) dell’argentino Jorge Baron Biza: un romanzo fuori del comune, la cui apparizione sulla scena letteraria argentina, nel 1998, ha suscitato un notevole scalpore, sia perché rinnovava la memoria di un dramma realmente accaduto, sia per la qualità straordinaria di una prosa capace di avventurarsi, a tratti, nell’invenzione di una vera e propria interlingua che si ispira al cocoliche (il pidgin degli immigrati italiani nella zona rioplatense) e modella il lessico spagnolo sulle costruzioni sintattiche dell’inglese o del tedesco, lingue parlate da alcuni personaggi. Una vera sfida, questa inserzione di brani che sembrano alludere all’impossibilità di una lingua letteraria, cui una traduttrice d’eccezione come Gina Maneri ha saputo trovare soluzioni brillanti ed equilibrate.

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Con la prima moglie Myriam Stefford

Paesaggi carnali
Figlio di Raúl Barón Biza – eccentrico milionario argentino che aveva sperperato una enorme fortuna e scritto una serie di libri «immorali», a metà tra pornografia e nichilismo – e di Clotilde Sabattini, esponente politica e pedagogista (suo padre era il leader radicale Amadeo Sabattini), sin da bambino Jorge era stato travolto dal turbolento rapporto tra i genitori, culminato nel 1964 in una causa di divorzio. E fu per definirne i termini che i due, accompagnati dai rispettivi avvocati, si incontrarono a Buenos Aires nell’appartamento di Raúl, dove lui gettò un bicchiere di acido solforico contro la moglie, per poi uccidersi con un colpo di pistola. È a questo punto che Jorge fa iniziare il suo romanzo, mentre i lineamenti della madre, nel taxi su cui il figlio ventenne la sta accompagnando all’ ospedale, si alterano fino a dare l’impressione che «la materia di quel volto si fosse del tutto liberata dalla volontà della sua proprietaria e potesse tramutarsi in qualunque forma nuova, tingersi delle sfumature riservate ai crepuscoli più intensi e danzare in tutte le direzioni…».

Da qui in avanti Jorge Baron Biza racconterà a sé stesso e agli altri, tramite una scrittura di singolare potenza, la storia di quel volto, del suo evolversi verso apparenze prima vegetali, che per colori e forma ricordano frutti e fiori fantastici, e poi geologiche, quando l’irrigidirsi dei tessuti crea paesaggi composti da rocce e crateri. La devastazione delle ustioni, ma anche quella provocata dagli infiniti interventi per nascondere il teschio che affiora da quel viso un tempo grazioso e «ingenuamente sensuale», viene minutamente, spassionatamente osservata e descritta da Jorge, cui è toccato il compito di assistere la madre e di accompagnarla a Milano, in una clinica dove per due anni verrà fatto tutto il possibile, senza, però, che quel «tutto» sia abbastanza. Clotilde vivrà ancora per quattordici anni, sforzandosi inutilmente di riprendere un’esistenza normale e di tornare al lavoro e alla politica, finché nel 1978 si getterà dal balcone dello stesso appartamento dov’era stata sfigurata (dieci anni dopo anche la figlia Maria Cristina, sorella minore di Jorge, morirà suicida), e dove conviveva con il ricordo del marito, conservando ogni suo più piccolo oggetto.

All’uscita del libro, buona parte della critica e dei lettori si concentrò sul suo contenuto autobiografico, vista la notorietà dei protagonisti e il clamore suscitato da una tragedia di cui l’Argentina aveva parlato a lungo, suggellata per di più da una catena di suicidi conclusa nel 2001 proprio da Jorge, che a cinquantanove anni si getta dal balcone del suo appartamento di Cordoba, sopraffatto, come scrive Alan Pauls nella lunga postfazione, da un corpo che non ce la faceva più: una morte che contribuisce a dilatare la leggenda nera della sua famiglia. Ma un’ottica del genere è lontana dal rappresentare la complessità e l’audacia del romanzo, suscettibile di ben altre letture. Lo stesso Baron Biza sottolineò più volte che Il deserto (il cui titolo originale, assai più evocativo, è El desierto y su semilla, ovvero «Il deserto e il suo seme») è lontano dall’autobiografia, e che «la sofferenza non legittima la letteratura. Ciò che legittima la letteratura è il testo».

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Con la seconda moglie Clotilde, che sfregiò

Non si può, infatti, non tenere conto della presa di distanza compiuta dall’autore, non solo attraverso espedienti come quello di cambiare nome ai personaggi – i Barón Biza diventano i Gageac, Clotilde si trasforma in Eligia, Raul in Arón, Jorge in Mario – , ma anche grazie a consumate strategie che ci riportano nel territorio di una letteratura scritta in prima persona e di ispirazione autobiografica, sì, ma lontanissima dal libro di memorie o dal semplice regolamento di conti con il passato e con la figura eccessiva, sfrenata, violenta del padre, quanto con quella fin troppo diligente, «così lavoratrice, con i suoi vestiti sobri, la sua pedagogia», di una madre assente, del tutto assorbita da una vocazione pubblica che aveva fatto di lei, oltre che un’eminente figura di educatrice, anche una sorta di anti-Evita.

Smarrimento metropolitano
Ci è voluto del tempo perché i contorni reali della storia di Eligia ed Arón (strettamente intrecciata, tra l’altro, a quella politica e sociale del loro paese) sfumassero fino a lasciar percepire lo spessore letterario di un testo in cui capitoli di un macabro sublime, dove il senso del colore e della forma ricordano a chi legge che Baron Biza era anche un eccellente critico d’arte (la carne della madre è un quadro di Arcimboldo, un paesaggio surrealista, una creazione astratta), si alternano al racconto quasi impersonale dell’inferno privato di Jorge/Mario, precocemente alcolizzato, deciso a optare per una sorta di autoanestesia che si risolve in passività assoluta – l’opposto, quindi, della violenza paterna -, perso per le strade di una Milano abbagliata dal miracolo economico, notturna, nebbiosa, le cui stradine sembrano riprodurre il disordine del volto di Eligia. Una città fatta di bar e locali notturni, di nuovi ricchi oltraggiosamente arroganti, di figure marginali come Dina, la prostituta che di Mario si innamora e che lo coinvolge in inquietanti, e tuttavia ridicole, sedute erotiche con i suoi clienti (ancora carne che si adatta, pronta a tutto); una città sgombrata dalle rovine della guerra ma non dalla sua memoria, il cui ritratto è piaciuto a Gillo Dorfles, colpito dal romanzo al punto da recensirlo nel 2003 sul Corriere della Sera, benché ancora non esistesse una traduzione italiana.

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Padre e figlio, Raul e Jorge

Il caos di cui la carne di Eligia è portatrice non si riflette, però, solo nella topografia milanese, ma anche in quello delle notti che suo figlio trascorre bevendo, in compagnia di gente equivoca, e nel suo successivo vagare per l’Italia in treno, senza soldi e senza meta. Ma la corrispondenza più evidente è quella con il caos dell’Argentina, paese martoriato da colpi di stato e dittature, da rivolte e da miti necrofili, come quello che riguarda il cadavere di Evita, bellissimo e incorrotto, trafugato e nascosto, come per una tremenda simmetria, nel cimitero di Milano, a poca distanza dalla clinica dove giace il corpo devastato di Eligia/Clotilde, la sua nemica e rivale. Al di là del discorso sulla cedevolezza e la resistenza della carne, sul rapporto tra volto e identità, tra esterno e interno che lega il corpo di Eligia alla vicende della sua famiglia e del suo paese, Il deserto è, però, innanzitutto il tentativo di Jorge, ormai maturo, di riappropriarsi di sé stesso attraverso lo sguardo che va a posarsi sul viso della madre, studiandolo frammento per frammento: una sorta di tenebroso romanzo di formazione, che cerca un impossibile punto di approdo al di là della tragedia.

 

 

SCHEDA

La vita di Raúl Barón Biza, nato a Buenos Aires nel 1899, in una famiglia di grandi proprietari terrieri, è stata raccontata dal sociologo argentino Christian Ferrer in Barón Biza. El inmoralista, una biografia documentata e attendibile uscita nel 2007 presso Sudamericana (una nuova versione aggiornata, è apparsa quest’anno), che mette in luce le contraddizioni di un personaggio eccessivo e provocatorio, che dilapidò per intero la sua enorme fortuna. Nullafacente ma con velleità imprenditoriali, playboy eppure misogino (secondo il figlio Jorge, odiava le donne perché «non poteva essere l’amante esclusivo di tutte»), milionario ma schierato col partito radicale, sostenitore di Yrigoyen e finanziatore di gruppi e fogli «sovversivi», fu anche autore di romanzi in cui tracce delle teorie di Nietzsche e del Marchese de Sade si fondevano con un erotismo che allora pareva abbastanza scandaloso da spedirlo in prigione per immoralità: «Il diritto di uccidere» (il più famoso, che inviò anche al Papa con una dedica sprezzante), Anima e carne di donna, Perché sono diventato rivoluzionario, e l’ultimo, il fosco Tutto era sporco, definito dal figlio «un fiume di risentimento» contro tutto e tutti, compresi i vecchi compagni di lotta. Una «aberrante caduta ideologica» che, secondo Jorge, spiegava in qualche modo anche l’acido gettato contro la seconda moglie Clotilde, madre dei suoi tre figli. La prima moglie Myriam Stefford, una attricetta svizzera con velleità di aviatrice, era morta mentre pilotava il suo aereo personale, e Raúl aveva eretto per quello che resta il monumento più alto di tutta l’Argentina, un’ala di aereo in cemento sotto la quale, dice la leggenda, non seppellì solo un corpo carbonizzato, ma anche i favolosi gioielli donati alla giovane sposa. Quanto a Clotilde, figlia del leader del partito radicale Sabattini, era fuggita con Raúl a quindici anni e ne aveva trascorsi trenta al suo fianco, tra infinite rotture e riconciliazioni, tenendogli testa e senza mai rinunciare ai propri studi e all’attività politica. La «vendetta» di suo figlio Jorge, che si firmava Baron invece di Barón, è quella di aver scritto un libro destinato a restare nella storia della letteratura argentina, a differenza di quelli paterni, giudicati assai negativamente dalla critica e ritirati dalla circolazione per volere della famiglia, anche se oggi un piccolo gruppo di giovani studiosi cordobesi sembra, nonostante tutto, volerli rivalutare.