migranti

Agli «indispensabili immigranti», per dirla con il grande storico francese Fernand Braudel, alla loro relazione con i luoghi di arrivo e a tutto ciò che ne consegue (in termini di neocolonialismo interno, di cosa comporti il governo militare-umanitario delle frontiere, della costruzione di una nuova idea di cittadinanza, della sovversione degli ordinamenti giuridici o, per dirla con il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, dell’«uso emancipativo del diritto») è dedicato Migranti e territori (a cura di Marco Omizzolo e Pina Sodano, Ediesse, pp. 492, euro 20), una raccolta di sedici saggi la cui eterogeneità aiuta a comprendere a tutto tondo come si sta modificando la società che abbiamo intorno.

A cominciare dal primo, di Maurizio Ambrosini, che dà conto di una ricerca sulla percezione delle famiglie immigrate nello sguardo degli italiani, molto utile non solo per sondare gli umori profondi dei nostri concittadini (che si dividono tra chi pensa che i ricongiungimenti familiari siano «un fenomeno da contrastrare» per ragioni culturali, chi ritiene invece che essi siano «una via d’integrazione» e chi viceversa crede che la chiusura nell’ambiente familiare provochi separazione dal resto della società), ma altresì per venire a conoscenza del fatto che ad avere paura degli immigrati sono di regola persone che vivono in piccoli centri, con bassa cultura e istruzione, anziani, spesso dipendenti dalla televisione e soprattutto che non hanno mai avuto a che fare con migranti. Nelle città e tra le persone di livello culturale medio-alto le cose invece cambiano radicalmente.

La questione migranti può essere affrontata da diversi punti di vista: c’è il governo dell’immigrazione a partire dalle frontiere dove origina la condizione del clandestino e c’è la questione del lavoro e dei diritti, fino ad arrivare al potenziale di scardinamento del sistema che un fenomeno così epocale porta implicitamente con sé. È quest’ultimo aspetto a essere indagato da Federico Oliveri, che utilizza la nozione di «atti di cittadinanza» teorizzata dal sociologo anglo-turco Engin Isin per giungere alla creazione di un nuovo status giuridico, che si forma in quella forma di resistenza alla globalizzazione che è la migrazione (in questo senso, torna alla mente perfino il Giustino Fortunato che definisce l’emigrazione a cavallo tra Otto e Novecento come una «rivoluzione silenziosa» dei meridionali nei confronti di aristocratici e latifondisti), nel conflitto violento con i dispositivi di controllo alle frontiere e nelle lotte sociali di questo nuovo «proletariato meticcio».

Il parallelo tra passato (l’emigrazione italiana) e presente (l’immigrazione verso il Belpaese) torna pure nel saggio di Marco Omizzolo, che mette a confronto la condizione dei sikh dell’agro pontino con quella dei braccianti (ed emigranti) italiani d’inizio secolo. Anche qui, di fronte alle scene dei caporali che reclutano manodopera a bassissimo costo, vale la pena ricordare le parole di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di una delle prime inchieste sulla condizione contadina nell’Italia post-unitaria. «La mattina prima dell’alba si vede riunita in una piazza di ogni città una folla di uomini e ragazzi, ciascuno munito di una zappa: è quello il mercato del lavoro, e son quelli tutti lavoranti, che aspettano chi venga a locare le loro braccia per la giornata o per la settimana», scrissero nel 1876 di ritorno dalla Sicilia. Un secolo e mezzo dopo, nel sud Italia il mercato del lavoro non è cambiato. Sono diversi solo i lavoratori.