Il saggio di Alessandro Barbano (Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà, Mondadori, pp. 181, euro 20) offre una prospettiva controcorrente che spiazza rivoluzionari e conservatori, riformisti e tradizionalisti, destra e sinistra. Ma che, soprattutto, potrebbe rappresentare un boccone amaro per chi si appresta a governare il Paese nei prossimi anni. La tesi è sintetizzata nel titolo del libro: il paese si è bloccato perché c’è stata una corsa perenne alla rivendicazione di diritti, e le classi dirigenti, invece di contrastare questa tendenza spontanea della società italiana, hanno avvalorato le richieste pur di consolidare nel breve periodo il proprio consenso. Ma garantire diritti ha avuto l’effetto di bloccare il cambiamento: chi è effettivamente riuscito a preservare i privilegi sono stati i gruppi d’interesse meglio organizzati. Il sistema politico si è intasato non per la coraggiosa difesa delle libertà negattive (dalle unioni civili allo ius soli), ma per quelle rivendicazioni ritenute diritti acquisiti, senza che nessuno si chiedesse chi pagava il conto.

BARBANO DENUNCIA i tanti casi in cui l’interesse particolare delle corporazioni prevale sull’interesse generale della società bloccando la dinamica civile, l’innovazione e lo sviluppo economico. Il ristagno sociale fa sì che ogni gruppo si arrocchi ancor di più nei propri privilegi, proprio perché entrare in altri settori è reso impossibile dalle spinte avverse di altre e ugualmente agguerrite corporazioni. Se il tassista non può diventare né notaio né farmacista, combatterà fino all’ultimo sangue per difendere il proprio posto di lavoro, trascinando il paese in un pericoloso circolo vizioso.

SI È COSÌ PROSEGUITO a garantire diritti, specie quando non onerosi o il cui costo poteva essere scaricato sulle generazioni future. Ma l’effetto è stato di aumentare le promesse non mantenute, generando un crescente scontento da parte dei cittadini. Nessuno si è preoccupato di chiarire quali e da dove provenissero le risorse per garantire tanti diritti. Non è certo una caratteristica solo italiana, ma da noi, anche a causa di un tasso di crescita assai inferiore rispetto ai Paesi vicini, i nodi sono venuti al pettine prima. L’effetto è stato di benedire le crescenti aspettative ignorando i corrispondenti doveri.

CHI HA PIÙ IL CORAGGIO di parlare dei doveri dei cittadini, dei dipendenti pubblici, degli imprenditori e delle classi dirigenti? Dopo le grandi dichiarazioni dei diritti scaturite dalle rivoluzioni americana e francese, era stato proprio uno dei padri dell’Italia – Giuseppe Mazzini – a far presente che una comunità politica si deve fondare anche sui doveri dell’uomo. Il suo trattatello è ben presto caduto nel dimenticatoio e solo pochi, ad esempio Giovanni Moro ed i suoi collaboratori di Cittadinanza attiva, hanno tentato di rendere più pregnante il binomio diritti/doveri.

CI SONO STATI FILOSOFI politici, in Italia e altrove – che hanno rintracciato nella tradizione delle città medioevali e rinascimentali un esempio di virtù civica forse capace di risolvere molti dei problemi delle democrazie liberali contemporanee. Gli accademici italiani sono stati abbandonati dalla politica e hanno dovuto rifugiarsi tra i verdi prati delle università straniere.
Barbano si schiera decisamente a favore di questa tradizione civica, anche se ogni tanto sembra quasi invocare un nuovo un «cavalcatore», più autorevole di quelli che, negli anni della Seconda Repubblica, hanno fallito il bersaglio.

UN CAVALCATORE, tuttavia, che dovrebbe trovare la propria legittimità nei cittadini virtuosi e quindi democraticamente legittimato. Ma l’autore segnala che sollecitare le aspettative del pubblico senza poi avere i mezzi per sostenerle genera sordi rancori. I tribuni del popolo, che oggi si definiscono avvocati degli italiani, dovrebbero aver ben chiaro che ai cittadini bisogna non solo promettere diritti, ma anche richiedere corrispondenti obbligazioni civiche. Salvini e Di Maio sono stati avvertiti.