In commissione ambientedella Camera, in merito alla proposta di legge sull’acqua pubblica, nel giro di pochi giorni, la VIII commissione di Montecitorio ha chiuso l’esame dei 110 emendamenti presentati, approvandone una decina del Pd che hanno sostituito di fatto il provvedimento originario.

Tra le novità apportate al testo della legge sull’acqua, del quale subito dopo Pasqua è calendarizzata la discussione in Parlamento, se ne segnalano, in particolar modo, almeno due principali.

La prima: è soppresso il richiamo alla nozione di bene comune, contenuto nella versione originaria, ed è proclamata la natura di servizio pubblico locale di interesse economico generale, contrariamente alla versione originaria, che parlava di servizio privo di rilevanza economica. Modifiche non sono simboliche, o soltanto nominali, ma tese a spostare l’impianto del testo dalla dimensione del comune ad altra mercantile e proprietaria.

La seconda novità: nel testo emendato vi è un evidente favor per lo strumento societario e le conseguenze giuridico-economiche che ciò comporta: il richiamo alla disciplina mercantile e privatistica dell’istituto societario. Infatti, in via prioritaria, è disposto l’affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate da tutti gli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale.

Il richiamo prioritario allo strumento societario (Spa), ancorché pubblico, quale modello di gestione del servizio idrico, non soltanto limita l’autonomia di scelta da parte delle autorità d’ambito e di conseguenza dei singoli comuni, trascurando qualsivoglia tipo di riferimento alla Città metropolitana, ormai costituzionalmente necessario dopo la riforma Del Rio, ma soprattutto sembra dimenticare l’esito del secondo quesito referendario che negava agli enti gestori la remunerazione del capitale investito. Questo limite, com’è noto, non è immediatamente compatibile con gli istituti del diritto societario, ancorché in presenza di una società a capitale pubblico.

In sostanza, rispetto al testo originario, si sopprime il richiamo ad una gestione realmente pubblica del servizio (mediante enti di diritto pubblico), in favore dell’affidamento diretto, in via prioritaria, a società pubbliche munite dei requisiti per la cosiddetta gestione in house. In altri termini, si azzerano gli spazi per il ricorso al modello dell’azienda speciale (a maggior ragione alle sue forme partecipate e comuni come l’ABC di Napoli), non essendo notoriamente le società in house degli enti di diritto pubblico. Il modello dell’Azienda Speciale, voluto nella sostanza dal referendum e ancor prima dalla legge popolare, risulterebbe così definitivamente escluso dal novero delle ipotesi previste. La nuova disciplina stabilirebbe, rispetto all’articolo 23-bis del decreto Ronchi abrogato dal referendum, soltanto un’inversione delle priorità dei modelli organizzativi , privilegiando, rispetto alle società private o miste, le società pubbliche.
Da quest’ultima manipolazione della volontà referendaria, risulta evidente come il referendum non riesca da solo a farsi interprete in toto della democrazia partecipativa e/o diretta. Il referendum lo si allontana dal suo spirito originario, trasformandolo in uno strumento “concesso dall’alto” e proprio “dall’alto” ne può essere indegnamente depotenziata la sua efficacia, la sua portata, trasformandolo in uno strumento ancillare della democrazia della rappresentanza, che lo utilizza per smaltire le sue tossine.

La battaglia referendaria, da ultimo quella importantissima che si terrà il 17 aprile per l’abrogazione della legge che consente la trivellazione dei fondali marini, verso la quale, in spregio dei principi costituzionali di partecipazione politica, la maggioranza parlamentare invita all’astensionismo, dovrà rappresentare l’occasione per far ripartire, con vigore, il dibattito sui beni comuni. Se si vuole andare oltre la strada referendaria – che, in ogni caso, andrebbe rafforzata con l’approvazione di un vero e proprio “Referendum Act” attraverso la previsione di referendum confermativi, già previsti, tra l’altro nel dibattito in Assemblea Costituente, – bisognerebbe scegliere altri percorsi capaci di intercettare e frequentare l’antagonismo, ma anche l’agonismo.

Alle comunità va riconosciuto la volontà di eliminare dal mondo giuridico determinati atti normativi ed amministrativi, incapaci di rappresentare gli effettivi orientamenti culturali, sociali ed economici dei cittadini. Il diritto di resistenza può e deve assumere forme normative attraverso l’affermazione delle consuetudini contra legem. Occorre, partendo da una dimensione locale e di prossimità della democrazia, sperimentare, così come si sta facendo in diverse realtà locali, pratiche “dal basso” di auto rappresentazione e autogestione.

*ordinario di Diritto Costituzionale, (Federico II, Napoli