Secondo un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della Salute, la cosiddetta “variante inglese” del coronavirus rappresenta circa il 18% dei ceppi virali in circolazione sul territorio italiano. Lo ha comunicato il direttore generale della prevenzione del ministero, l’infettivologo Gianni Rezza, nel corso dell’incontro settimanale con la stampa sulla situazione della pandemia.

IL DATO DERIVA dall’analisi delle sequenze genetiche di tamponi raccolti tra il 4 e il 5 febbraio. Ma è un numero da prendere con qualche cautela. All’indagine non hanno partecipato tutte le regioni e le province autonome, ma solo 16 su 21. La percentuale media calcolata a livello nazionale, inoltre, nasconde differenze interne degne dei polli di Trilussa: «In alcune regioni la variante inglese rappresenta meno del 5% dei ceppi in circolazione, in altre oltre il 50% ed è dunque già dominante» spiega Rezza. Non è dato sapere quali siano le regioni di maggiore incidenza, perché si vuole evitare l’ennesima “classifica” e le stesse regioni conosceranno il dato solo oggi. Rezza si lascia scappare solo che l’incidenza è particolarmente alta sulla costa adriatica. Non è una sorpresa, perché era già emerso dall’analisi dei focolai abruzzesi degli scorsi giorni.

L’indagine andrà ripetuta per capire con quale velocità si diffonderà la variante. Gli esperti sono rassegnati all’idea che la variante inglese diventi dominante nel giro di poche settimane. «Ma una data per il prossimo test non c’è ancora», spiega il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, che affianca Rezza in sala stampa. Per le altre varianti già comparse in Europa, quella brasiliana presente in Francia e quella sudafricana rilevata in Tirolo, si spera di riuscire a circoscrivere i focolai sul nascere.

NON CI SONO SOLO le varianti a preoccupare gli epidemiologi. Il virus infatti sta rialzando la testa e l’indice Rt è risalito fino a 0,95, vicinissimo alla soglia 1 che indica un contagio di nuovo in espansione. Il numero di casi positivi, 133 ogni centomila abitanti nell’ultima settimana, è praticamente identico a quello della settimana precedente. Un’incidenza «lontana dai livelli (50 per 100.000) che permetterebbero il completo ripristino sull’intero territorio nazionale dell’identificazione dei casi e tracciamento dei loro contatti» secondo gli esperti. È in leggero calo l’età media dei nuovi casi e questo spiega perché invece aumenti la percentuale di casi positivi asintomatici.

Sul monitoraggio dell’epidemia, la regione Lombardia è sempre quella più in difficoltà: riesce a comunicare la data di insorgenza dei sintomi, necessaria per il calcolo di Rt, su meno del 70% dei casi. In Alto Adige sono i tamponi a non tenere il ritmo del contagio: risulta positivo un test su 3 e l’incidenza raggiunge i 770 casi per centomila abitanti in sette giorni, sei volte sopra la media nazionale.

OTTO REGIONI hanno un indice Rt sopra la soglia critica, con un picco in Alto Adige a quota 1,25 e un minimo in Sicilia, 0,66. L’analisi degli epidemiologi fa scattare nuove zone “arancioni” in Trentino, Toscana, Abruzzo e Liguria, che si aggiungono ad Alto Adige e Umbria che erano già collocate in quella fascia cromatica. Sono anche le due sole ad essere considerate complessivamente a rischio “alto”. Val d’Aosta e Sardegna, invece, hanno dati da “zona bianca”, in base alla quale verrebbero allentate quasi tutte le restrizioni, tranne il distanziamento sociale e l’obbligo di mascherina: se anche la prossima settimana l’incidenza rimarrà al di sotto dei 50 casi ogni centomila abitanti, sarebbero le prime due regioni a entrare nella fascia di rischio più bassa.

I DATI DEL GIORNO confermano che il contagio ha smesso di rallentare. Ieri i casi positivi registrati sono stati quasi 14 mila, con 316 decessi. L’unico dato davvero positivo riguarda il numero delle vittime, che nell’ultima settimana sono diminuite di un incoraggiante 13%.