Nella giornata di ieri si sono registrate 243 vittime di Covid-19 in Italia. In totale sono state 30.201 dall’inizio dell’epidemia. I nuovi casi positivi sono 1.327. Con 2.747 persone guarite o dimesse dagli ospedali, i casi definiti «attualmente positivi» sono scesi a 87.961, il 18% dei quali ricoverato in ospedale. L’88% delle vittime ha avuto il Covid-19 come principale causa di morte.

Lo dimostra l’analisi delle cartelle cliniche avviata da Iss e Istat. Sono stati esaminati solo il 9% dei decessi, quindi si tratta di dati ancora provvisori. Anche se il 39% delle vittime e il 48% dei casi sono stati rilevati in Lombardia, nella regione l’indice di trasmissibilità R0 è stimato a 0,57: ben al di sotto del valore 1 che corrisponde a una nuova ondata epidemica. Da questo punto di vista preoccupano di più altre regioni, come la Puglia, in cui il numero di casi è molto inferiore (solo 11 nuovi casi ieri) ma l’indice R0 vale 0,96.

È la sintesi sull’andamento dell’epidemia presentato, come ogni venerdì, dall’Istituto Superiore di Sanità insieme a un approfondimento di un aspetto specifico del focolaio italiano. Ieri è stato il turno degli stranieri: è vero che si ammalano meno? Hanno provato a rispondere il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e il direttore della divisione malattie infettive (appena nominato responsabile dei servizi di prevenzione al Ministero della salute) Gianni Rezza.

A GUARDARE IL NUMERO di stranieri nelle statistiche dei casi positivi, il dato sembrerebbe confermato: gli stranieri sono l’8,7% della popolazione e il 5,1% dei casi positivi. Il rischio che un cittadino straniero risulti positivo è inferiore del 40% rispetto agli italiani. Non sarebbe una sorpresa, perché la popolazione migrante è mediamente più giovane e sana della popolazione residente. Ma, come mostrano altri dati, è una verità solo apparente.

Tra gli stranieri, infatti, la curva epidemica nella popolazione straniera presenta un anomalo ritardo (circa una settimana) rispetto a quella dei cittadini italiani. Inoltre, gli stranieri ricoverati hanno una maggiore probabilità di finire in terapia intensiva e di morire. Alla luce di questi dati, la diversa incidenza del Covid tra i migranti si spiega con un minore accesso ai test – da qui i numeri inferiori e il ritardo nelle curve epidemiche. La difficoltà di accedere ai tamponi fa sì che i migranti arrivino al ricovero in condizioni più gravi e con un aumentato rischio di morte. Le differenze si accentuano tra i migranti provenienti da paesi a reddito più basso.

Potrebbe dipendere da una «minore dimestichezza nell’interfacciarsi con i servizi sanitari e da necessità economiche che inducono a evitare l’isolamento e la sospensione dell’attività lavorativa», secondo Rezza. «In ogni caso – conclude – l’ipotesi che gli stranieri siano più protetti mi sembra confutata».

LA DIFFICOLTÀ DEI MIGRANTI ad accedere al servizio sanitario non è sorprendente. Una ricerca del 2018 intitolata Accesso dei migranti alle cure primarie e ai servizi sanitari di prevenzione sostiene che l’Italia è uno dei paesi in cui la popolazione straniera ha l’accesso più basso alle cure specialistiche (il 38% in meno rispetto agli italiani) e deve ricorrere più spesso al pronto soccorso (il 45% in più).

«Il paradosso è che l’Italia possiede la legislazione più avanzata in termini di accesso dei migranti al sistema sanitario» dice Aldo Rosano, primo ricercatore presso l’Agenzia Nazionale di Sanità e curatore del volume. Secondo il Migrant Integration Policy Index, che misura i diritti degli stranieri nei diversi settori, l’Italia è il paese dell’Ue con il sistema sanitario più aperto ai migranti, almeno sulla carta, ed è il sesto a livello mondiale dopo Nuova Zelanda, Svizzera, Usa, Australia e Norvegia.

Ma i dati raccolti da Rosano dimostrano che molti stranieri ne rimangono comunque esclusi: ad esempio, solo il 44% delle donne straniere extra-Ue residenti in Italia partecipa agli screening contro il cancro al seno, contro il 64% delle italiane. In tutti i servizi di prevenzione si osservano statistiche analoghe. «Le ragioni sono diverse», spiega Rosano. «Hanno a che fare con le barriere linguistiche e culturali e l’incapacità del nostro servizio sanitario di rivolgersi agli stranieri in maniera inclusiva».