Il titolo, Tempi decisivi, potrebbe fare pensare a un romanzo di Charles Dickens. Il sottotitolo Natura e retorica delle crisi internazionali, invece, chiarisce subito che non ci troviamo in ambito letterario esplicitando l’asse tematico su cui insiste l’ultimo libro, edito da Feltrinelli (pp. 266, euro 24), di Alessandro Colombo, autore in passato di uno dei migliori libri disponibili sulle «nuove guerre», La guerra ineguale (il Mulino), a cui era seguito La disunità del mondo (Feltrinelli), acuta analisi sulle tendenze alla frammentazione e alla regionalizzazione innestatesi sul divenire, apparentemente irresistibile, della globalizzazione. La più recente tappa di tale itinerario di ricerca sceglie il terreno del confronto con la parola più inflazionata del presente: crisi. A entrare in gioco è un dato pressoché costante dell’autorappresentazione della modernità che, per citare Reinhart Koselleck (Crisi, ombre corte 2012), si affida a tale concetto sia per definire il normale funzionamento delle cose, con un presente percepito come costantemente in ritardo nei confronti dei processi che lo attraversano, sia per nominare i momenti di rottura.

Mondi unipolari

Con un procedere per molti versi più simile al movimento digressivo della sociologia di Georg Simmel che al gusto per la modellistica tipico delle Relazioni internazionali, il libro di Colombo azzarda una fenomenologia della crisi cercando di cogliere le costanti che si affermano nelle plurime aggettivazioni apponibili al termine (economica, culturale, psicologica ecc.). Il fuoco analitico, però, si concentra soprattutto sulla dimensione politica e, in particolare, sulle dinamiche internazionali a partire da un’interrogazione sulla crisi del presente. O sulle crisi, in quanto, come sottolinea Colombo, l’attuale congiuntura si caratterizzerebbe per il convergere di più serie «critiche»: in primo luogo, la crisi economica ma anche quella dell’ordine internazionale, a partire dal fallimento del tentativo degli Stati Uniti di consolidare il «momento unipolare», per non dire della crisi di legittimità delle élite democratiche nazionali e delle organizzazioni internazionali. Ciò produce un contesto decisamente problematico, non privo di precedenti storici, ma che, come si nota, sembra distinguersi per una strana particolarità. A fronte della recessione/stagnazione economica, della polarizzazione sociale, dell’incapacità delle istituzioni di governare i processi si manifesta l’afasia della teoria e una sorta di estasi della politica.
La crisi, da questo punto di vista, non suscita opposti schieramenti, che sul terreno del dibattito culturale o dell’azione politica, ambiscano a prefigurare o ad agire possibili soluzioni, magari radicalmente antitetiche e conflittuali. E così, mentre si rinnovano gli atti di fede in ricette che hanno ripetutamente dimostrato il loro fallimento, ci si appella a generiche riforme o all’universalismo della buona volontà.

Sovranità del Principe

Diversi sono gli spunti di riflessione rintracciabili nel libro di Colombo. Se ci si concentra sul terreno delle Relazioni internazionali, intese come disciplina, si può notare come il reagente «crisi» interroghi criticamente gli assunti posti alla base della definizione della politica internazionale come ambito retto da una logica sui generis, altra rispetto a quella della politica interna. É su tale distinzione e su una correlativa radicale selezione delle variabili giudicate pertinenti che si sono fondate le ambizioni da parte dell’indirizzo a lungo egemonico nelle Relazioni internazionali, il realismo, di costruire una scienza non meramente descrittiva ma anche precettiva e predittiva da proporre come «sapere al servizio del principe». Da questo punto di vista, la crisi, per il suo effetto contagio che si trasmette da un ambito all’altro – con le dinamiche politiche interne che si trasmettono nella dimensione internazionale e viceversa – confonde i piani. L’accresciuta porosità della «pelle confinaria» chiamata a distinguere due differenti sfere rette da logiche considerate autosufficienti fa emergere il carattere convenzionale della finzione della sovranità, incondizionata all’interno delle proprie frontiere e unitariamente proiettata nell’arena internazionale per affermarsi nelle relazioni ponderali con altre unità egualmente personificate e considerate portatrici di interessi unitari. Nelle parole di Colombo, «se la crisi può confondere del tutto la distinzione fra ordine internazionale e ordini interni, è perché alcune cose sfuggono sempre a questa distinzione, in misura diversa secondo le epoche e i luoghi». Di conseguenza, «la crisi non crea, ma attiva segmenti di connessioni già esistenti; anzi rivela, di volta in volta, da dove nascono e per dove passano questi segmenti, quanto sono estesi, quali soggetti coinvolgono e quanto a fondo scavano la geometria giuridica e spaziale della convivenza internazionale moderna»
Sarebbe tuttavia riduttivo considerare Tempi decisivi solo nei termini di una presa di posizione interna a un dibattito disciplinare, in cui si fanno valere le ragioni di un’impostazione informata storicamente, in sintonia con autori quali Raymond Aron o Carl Schmitt, contro le ansie modellistiche della teoria mainstream. In fondo, ci troviamo di fronte a un libro sulla crisi scritto in tempi di crisi, che si pone come interrogazione critica sulla congiuntura in cui siamo. E proprio su questo punto vale la pena soffermarsi perché a entrare in gioco sono le impasse o, se si preferisce, la paralisi costituente che sembra costituire la cifra dominante di questi anni. La crisi, non solo svela la natura contingente e socialmente determinata di ciò che il corso delle cose ci fa percepire come naturale ma, esibendo l’inadeguatezza delle routine e dei funzionamenti istituzionali, richiama l’esigenza di una decisione in grado di recidere i nodi che la prassi ordinaria non è in grado di sciogliere. Da qui, aggiunge Colombo, la correlazione fra la fase critica e lo stato di eccezione. Si tratta di una caratterizzazione assai diffusa negli ultimi decenni, con l’ipotesi di una sospensione temporanea dell’ordinamento che si è affermata come chiave di lettura per le fasi di crisi mettendo da parte un lessico che, in termini positivi o negativi, rimandava a una dinamica costituente: rivoluzione, controrivoluzione, colpo di stato.

Eclissi delle alternative

In realtà, la relazione fra situazione emergenziale e decisione sovrana appare decisamente più problematica di quanto, sulla base di alcune stentoree formule di Carl Schmitt, si è soliti pensare. Se con lo stato di eccezione a imporsi è la ratio necessitatis, viene immediatamente a cadere l’idea di una libera decisione, di una scelta fra più alternative. Di fronte all’emergenza, infatti, si produrrebbe una situazione di sconcerto, di paralisi, di blocco della dimensione deliberativa a favore di un idem sentire riguardante la percezione di una minaccia. A tal proposito, più che di decisionismo si potrebbe parlare di sublime, nel senso attribuito al termine da Burke o, con accenti diversi da Kant, come sconcerto di fronte a ciò che appare minaccioso e smisurato. Infatti, se è dato cogliere un tratto di specificità condivisa fra i casi rubricati in questi anni sotto l’etichetta «stato di eccezione», esso riguarda il loro porsi come reazioni obbligate a uno stato di necessità, sotto la minaccia ora del terrorismo ora della speculazione finanziaria. E qui risulta utile la lettura in chiave estetica dei fenomeni emergenziali. A imporsi, in quei frangenti, è non tanto una fantomatica sospensione dell’ordinamento che apre la strada a una libera decisione sovrana quanto un superamento della consueta dialettica politica, del gioco degli schieramenti e delle opzioni, a favore dell’unanime percezione, elaborata essenzialmente a livello emotivo ed emozionale, del fatto che di fronte alla minaccia non esistono alternative se non l’adozione di misure che si impongono come necessità.

Processi costituenti

La lettura eccezionalista del presente, però, presenta anche altri problemi. In primo luogo, essa finisce per dare per scontata la persistenza di un determinato ordine, costituzionale, giuridico o economico, ascrivendone le forzature e le violazioni a una sua sospensione solo temporanea. Colombo, come si è visto, evidenzia il trade off fra momenti in cui la distinzione fra ordine internazionale e ordini interni costituisce una cornice plausibile dei processi in atto e altri in cui tale articolazione è smentita dal potenziamento dei «segmenti di connessione» che operano trasversalmente rispetto ai suoi termini. Gli scenari del presente, da questo punto di vista, possono essere letti come una fase all’interno di quel gioco oscillatorio.
Ma si può anche ritenere che il principio ordinatore incentrato sulla finzione della sovranità risulti definitivamente spiazzato dall’emergere di spazialità multiscalari correlate a una proliferazione eterogenea di dispositivi confinari, dalla perdita di presa delle opposizioni fondanti delle della modernità politica (interno/esterno, militare/civile, pace/guerra, privato/pubblico), dalla sempre maggiore autonomia funzionale e cognitiva manifestata da regimi settoriali operanti a scala globale. Se si propende per tale ipotesi, ci troveremmo di fronte non a una sospensione provvisoria di un ordine – costituzionale, sociale ed economico – destinato a tornare, una volta passata la bufera, ma a un possente processo costituente a scala globale cui, con ogni evidenza, le politiche adottate nel sublime della crisi stanno imprimendo una notevole accelerazione.