Esiste un momento nella nostra vita in cui cambia tutto. È lo scorrere degli eventi, piccole o grandi cose che modificano un percorso condotto nell’indecisione tra mille sentieri. Nulla sarà come prima e dopo, comunque, non sarà lo stesso perché, appunto, i sentieri che scegliamo o nei quali ci troviamo sono mille. Esiste un momento nella nostra vita in cui l’esistenza non si può più intendere al singolare. Tutto si fa collettivo. In realtà lo sarebbe da sempre, ma tendiamo a dimenticarlo, a pensarci da soli, con dei confini che non vanno oltre il nostro corpo. Alla fine del 2019 nel mondo, in Italia a gennaio 2020, non è stato possibile perdere la memoria della nostra natura plurale. Erano i giorni nei quali abbiamo scoperto che esisteva un virus, il Covid-19, che ci rendeva allo stesso tempo vittime e carnefici. Io, noi, gli altri, tutti insieme a condividere paure, rimozioni, atti di generosità ed egoismi di disarmante umanità. Il mondo era diviso in due, tra chi si proteggeva in casa e chi era dentro un ospedale, sano per curare, malato per guarire. E proprio in uno dei tanti luoghi alla ricerca di una salvezza, Michele Aiello ha realizzato Io resto. Lo si potrebbe definire un documentario di testimonianza, che porta alla luce il lavoro di tutto il personale degli Spedali Civili di Brescia e che, contemporaneamente, mostra lo spaesamento di chi si sente aggredito da qualcosa di inaspettato, di invisibile, le cui conseguenze, però, possono essere atroci.

OGGI, ANCORA PIÙ di quando è stato girato, questo film riporta all’attenzione quello che si potrebbe definire il lato esistenziale del Covid-19. Molti registi dall’inizio della pandemia hanno puntato lo sguardo su chi rimaneva confinato dentro le mura di casa e si accingeva a stravolgere le regole dell’esistere insieme agli altri. Aiello, invece, entrando in un ospedale di una delle regioni e città più colpite dal virus, ha osservato da vicino la complessità dell’essere al presente, cioè di vite che devono decidere qui ed ora, che di fronte a qualcosa di ignoto sanno di poter sbagliare, di avere in mano il proprio e altrui destino. Cosa fare? Chi seguire? Cosa consentire? Quando si può fare un’eccezione? Come comunicare? Quali sentimenti esibire? Quando abbandonare? Quando abbandonarsi? Sono solo alcune delle domande che in modo diretto o meno pervadono le stanze dell’ospedale. Persone che da una parte e dall’altra della malattia sono a stretto contatto con la morte. Alla fine, l’abbiamo pronunciata la parola che pare non debba essere mai detta. La morte, perché di questo si tratta, della nostra finitezza e di ciò che provoca questo stato irrevocabile della nostra esistenza. «Avevo la paura folle di addormentarmi e di non svegliarmi più» confessa Elena, guarita dal Covid, alla sorella che lavora all’ospedale. «E invece sei ancora viva», replicherà Silvia. In un certo senso, Io resto, non è solo il grido possibile di un infermiere o un medico che continua a lottare. È anche lo sforzo di vivere, di essere ancora con gli altri.