Giorni fa, Ernesto Ferrero (sul quotidiano La Stampa dell’8 di aprile, ndr), che prima ancora di avere diretto per anni il Salone del libro di Torino è stato ed è autore e grande lettore di opere significative per la nostra formazione, ha scritto una sorta di appello per la riapertura delle librerie (e dei musei) lamentando come il governo abbia mostrato considerazione solo per le necessità del corpo e non per quelle della mente (che per la verità sono una cosa sola) supponendo anche che «i fruitori di cultura» «proprio in quanto tali» siano «cittadini con spiccato senso di consapevolezza e responsabilità».

A parte i dubbi ispirati da tanta fiducia, dopo una prima impulsiva adesione, qualche perplessità riguarda, intanto, il reiterato procedere indisturbati per vie orizzontali, e dunque indiscriminate, secondo quella stessa sciagurata strategia che ha penalizzato la sanità pubblica, non tanto in ragione dell’entità dei tagli inflitti, quanto in sragione della loro indiscriminata distribuzione, vuoi a settori vitali vuoi a ambiti superflui.

Ora, per quanto riguarda le librerie (ma perché non anche gli ormai rarissimi negozi di dischi? Forse perché la musica è, dalla prospettiva del governo, una ancora più remota e inesplorata contrada?) esse sono importanti, intanto e soprattutto, in quanto approdo finale della lunga filiera del libro (e delle incisioni su disco) il cui pubblico – va ricordato – è una entità assai più vasta della somma dei lettori, perché ingloba persone che non necessariamente leggono, e tuttavia partecipano alla circolazione dei testi.

Proprio a questo proposito, a commento delle numerose iniziative che nelle settimane passate hanno cercato di far circolare comunque i libri, sarà il caso di interrogarsi su come esse abbiano condizionato (è un fenomeno globale) l’inconscio della ricezione, se è vero – come recita una celebre sintesi del grande bibliografo Donald McKenzie – che «le forme producono significato».

Di attualità, oggi, non è più tanto il formato attraverso il quale i libri ci arrivano, quanto il contesto, che – ricordava Gérard Genette in un suo celebre saggio del 1987, Soglie – è già «un paratesto». Quello del critico francese era, per la verità, uno studio sincronico, finalizzato a analizzare i modi in cui un testo viene presentato, ovvero «reso presente al mondo», tramite, per esempio, il carattere performativo (questo è un romanzo) di alcuni suoi elementi (dal formato, alla copertina, alla posizione del nome dell’autore, alla prefazione, alla dedica, alla collana e così via) determinando «quella zona indecisa» nella quale «il codice sociale, nel suo aspetto pubblicitario e i codici produttori e regolatori del testo – ha scritto Claude Duchet – si mescolano».

In quanto interfaccia tra mondo esterno, quello della ricezione, e mondo interno, quello del testo, la confezione del libro finisce per determinare il suo Io. Ora, come si inscrive, per esempio, nella nostra ricezione inconscia, il ricevere a casa, dalle mani di un librario il quale per necessità si è fatto fattorino, il titolo che si sa prelevato, quasi di nascosto, a serranda semiserrata?

O come ricorderemo le nuove collanine di testi digitali varate (una su tutte la «Microgrammi» della Adelphi) in stato di pandemia?

Commentando la considerazione di Edward Said secondo il quale la teoria letteraria tenderebbe a isolare i testi dalle circostanze e dagli eventi che li hanno resi possibili, Robert Scholes ha proposto a suo tempo di rendere secolare quella attitudine della lettura critica che è piuttosto ermetica, ovvero di introdurre la storia del tempo nella ricezione dei testi.

Questo, forse, più che il dibattito sulla opportunità di chiudere le librerie – ormai quasi sempre vetrine dell’ultimo grido editoriale, e prive di catalogo – meriterà considerazioni di lungo periodo, nella speranza che, intanto, anche le invocazioni alla necessità di «cultura» si spengano per abuso di retorica: sia perché, da un punto di vista superficiale, ovvero di costume, non si vede a quale titolo iscrivere al suddetto registro le migliaia di libri a firma di star televisive, calcistiche, estetistiche, psicologistiche che invadono i banconi delle librerie di catena, a fronte dei pochi centimetri di visibilità guadagnati da titoli istruttivi, che spesso a pagamento (per esempio presso le Feltrinelli) i piccoli editori faticosamente strappano a snervanti contrattazioni; sia perché – in una dimensione più antropologica – la invocata cultura non è un qualcosa il cui accesso è una questione elettiva, bensì un requisito ineliminabile dell’animale umano, che privo di una nicchia ambientale che lo preveda, ha bisogno di trasformare attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita: questo, prima di altro, è la cultura, per Gehlen la «seconda natura dell’uomo».