Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani e membro del Comitato tecnico scientifico, è uno dei più autorevoli protagonisti della lotta al coronavirus. Più che sulla sua esperienza, preferisce soffermarsi sulle lezioni che possiamo trarre dalla pandemia per il futuro. Le ha appena condensate in un volume intitolato «Cosa sarà. Come cambierà la nostra vita dopo la grande pandemia», scritto a quattro mani con Salvatore Curiale per l’editore Mind. La conversazione però parte dal presente.

 

 

Davvero si muore di meno di Covid-19?
Sì, ma non per le mutazioni del virus. Abbiamo imparato a trattare meglio i pazienti. E c’è una minore densità di circolazione del virus. Anche una recente ricerca del gruppo di Massimo Clementi suggerisce che distanziamento sociale, igiene e mascherine abbiano diminuito la carica virale delle persone contagiate, e il rischio di sviluppare sintomi gravi. Infine, l’età mediana dei contagiati ora è intorno ai 40 anni, contro i 60 della prima fase. La probabilità che un quarantenne subisca effetti gravi è nettamente inferiore.

La ricerca di Clementi aveva fatto discutere prima ancora di essere pubblicata, come tantissime altre divulgate su Internet direttamente dagli autori. La circolazione delle informazioni, prima affidata ai tempi lunghi delle riviste, ha accelerato tantissimo. È stato davvero un bene?
Ricevo tutti i giorni il bollettino di Retraction Watch, un sito dedicato alle ricerche ritirate perché sbagliate o fraudolente: non ci sono mai stati così tanti studi ritirati o corretti. Anche le riviste si sono fatte coinvolgere dall’accelerazione. È diventata una guerra a chi pubblicava prima questo o quello studio. Il sistema attuale permette una maggiore facilità di pubblicazione delle ricerche, ma rende più difficile interpretare i dati.

Quelli a disposizione sull’epidemia sono però poco trasparenti: li conosciamo solo in forma aggregata.
È stata chiesta maggiore apertura. L’Accademia dei Lincei in un documento ha scritto: «Tutti i dati sull’epidemia devono essere resi pubblici». Un emendamento al Dl Maggio a firma del deputato Riccardo Magi ha chiesto di pubblicare tutti i dati disaggregati prodotti dalle regioni sul portale degli «open data» della pubblica amministrazione. Ma il governo ha dato parere contrario, adducendo l’obiezione da parte del garante della privacy.

A cosa sarebbe servito avere dati più trasparenti?
Faccio un esempio: l’Istituto nazionale di fisica nucleare ha grandi capacità di analisi, ma può lavorare solo su dati aggregati. Peraltro, è in grado di valutare dispositivi medici e mascherine, ha progetti di ricerca sui metodi per la quantificazione dei micro-organismi: se avessero avuto a disposizione i dati avrebbero potuto rendersi molto utili. Ma come ha mostrato uno studio di Cristina da Rold su «Ink/Recenti progressi in medicina», poche regioni condividono i dati sui ricoveri per singola Asl o ospedale.

D’altronde tocca alle regioni gestire la sanità. È il grosso del loro bilancio.
Sono convinto che la campagna elettorale regionale si giocherà tutta sulla sanità. Ma è necessario che venga definito un modello nazionale. La gestione delle regioni dovrebbe limitarsi all’“ultimo miglio”. Nel sistema attuale invece ognuno fa come gli pare. Nel libro, in un’“intervista impossibile” al professor Guzzanti, lo scriviamo: come si può far funzionare la sanità, con venti sistemi regionali completamente diversi?

Nel libro sottolinea l’importanza della sanità territoriale: come la si rafforza?
Facendo chiarezza su ruoli, funzioni e compiti dei medici che lavorano sul territorio. Con una valutazione dell’appropriatezza delle pratiche mediche. E con un’integrazione tra assistenza sociale e assistenza sanitaria. Con l’avanzare dell’età media, bisogni sociali e sanitari non devono essere separati. Finora ci siamo preoccupati di guadagnare anni di vita e di salute. Ora dobbiamo dare un valore a quegli anni che abbiamo guadagnato. Il paziente deve avere un servizio di assistenza sul territorio, dove magari dover trovare un cardiologo. Spendiamo miliardi in app, ma perché agli anziani non dobbiamo dare un sistema continuo di monitoraggio? Serve un nuovo patto generazionale: oggi gli anziani si occupano dei nipoti, e per questo si ammalano, ma i giovani non si rendono conto del loro valore. Infine, ristabilirei la differenza tra sanità pubblica e privato: chi fa il pubblico fa il pubblico e chi fa il privato fa il privato.

La democrazia può aiutare la scienza?
Il mio maestro Dick Wenzel, commentando gli attacchi al virologo statunitense Anthony Fauci, ha citato Bertold Brecht che in «Vita di Galileo» si chiedeva «Qual è l’obiettivo della scienza? Non aprire le porte alla saggezza eterna, ma chiuderle all’ignoranza». La democrazia, quando funziona, permette di dare voce alla ragione.

(I proventi delle vendite del libro “Cosa sarà-Come cambierà la nostra vita dopo la grande pandemia. La sanità, il lavoro, la scuola, la politica’ di Giuseppe Ippolito e Salvatore Curiale (Mind Edizioni) saranno interamente devoluti al finanziamento di attività di ricerca dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”).