Che cosa fa di un maschio un “uomo virile”? Se lo è chiesto il New York Times analizzando linguaggi e comportamenti opposti dei candidati Biden e Trump. Ma che significa “uomo virile”, Man Manly? Il dizionario riporta un esempio dall’ inglese: “Un uomo che sia fiducioso e sicuro nella sua mascolinità; un uomo che abbia uno stile di vita di concretezza fisica e un vigore fisico oltre che mentale”. Anche leggendo “mascolinità” in modo positivo sappiamo che questa idea di forza spesso degenera in violenza, ansia di possesso, misoginia.

L’articolo del NYT, scritto da due donne (Claire Cain Miller e Alisha Haridasani Gupta, il 30 ottobre,cita esempi. Biden abbraccia affettuosamente i figli maschi (per un elettore conservatore non è un “gesto appropriato” tra veri uomini) e afferma che bisogna prendersi cura degli altri. Indossa diligentemente la mascherina, mentre Trump se la strappa platealmente, negando la propria vulnerabilità così come il rischio di infettare altri. E la misoginia è un “fattore essenziale della sua personalità”. Aspetti importanti nelle strategie elettorali se il 67 per cento dei maschi bianchi privi di titoli di studio superiori sarebbero suoi elettori. Ma il punto è un altro.
Il messaggio su che cosa sia un “uomo virile”, su come si vivono i rapporti tra i sessi, è profondamente legato all’idea di quale sia una società giusta, all’esistenza che desideriamo. Riguarda non solo l’eros e i sentimenti, ma l’economia, la democrazia, le disuguaglianze, il welfare, insomma tutto ciò che definisce l’agire politico.

I mesi di pandemia hanno acutizzato questi dilemmi. Ne abbiamo discusso con molti amici della rete maschile plurale. Offrendo poi alla riflessione pubblica un testo con un primo appuntamento su zoom nella giornata di domani. Ora che la “seconda ondata” è tra noi e la politica istituzionale litiga sul “che fare”, mentre, silenziati i cori sui balconi, molti cittadini e cittadine protestano nelle piazze, si torna con insistenza a parlare di “guerra”. Solo questa metafora sembra capace di indurre alla “disciplina”. Il nostro testo parte proprio da questa distorsione “virilista” del linguaggio, per avanzare domande partendo dal vissuto di ognuno e ognuna: “Cosa abbiamo imparato da questa esperienza? O meglio cosa vogliamo imparare mentre ci auguriamo che man mano la vita e le relazioni possano ritrovare la loro pienezza di espressione?”. Per riconsiderare “le nostre abitudini e stili di vita, praticare accoglienza, dare valore alle relazioni e alla cura, di sé, degli altri, dell’ambiente, dare senso e spessore differenti al nostro uso del tempo? Che cosa pensiamo dei casi di violenza narrati dalla cronaca, in cui spesso al centro c’è una concezione della maschilità schiacciata dall’aggressività, dal possesso, dall’odio per il diverso?”.

Abbiamo finalmente capito che è assurdo rimuovere che tanta parte del lavoro necessario alla vita di tutti è fatto gratuitamente dalle donne? La parola cura, contrapposta a guerra, conosce un notevole successo, ma – come scrive Adriana Maestro – “se si affronta il tema della cura rimanendo all’interno dell’ordine simbolico patriarcale, non si riesce a comprendere la forza scardinante che questo sapere, questa esperienza porta con sé.” Non si tratta quindi di monetizzare il lavoro di cura, o di rimuovere i conflitti che implica, ma “di rileggere completamente l’idea di lavoro, di economia, di valore, alla luce di un’idea di cura che rovescia le priorità acquisite e pone effettivamente la vita al centro, come priorità che determina lo sguardo su tutto il resto, superando la distinzione tra lavori produttivi e lavori riproduttivi”.

Credo che per tentare questa rivoluzione occorra un desiderio, un gesto, una determinazione da parte di noi uomini che finora non ho visto. Mi piacerebbe che l’incontro di domani aiutasse una nuova ricerca condivisa.