Viktor Yanukovich è ufficialmente ricercato. I vincitori vogliono trascinare il vinto al banco degli imputati, assieme ai principali responsabili delle stragi di Kiev. Ma devono stanarlo. Non si sa dove sia. Il deposto presidente ucraino ha cercato goffamente di svignarsela in Russia, ma è stato fermato alla frontiera. Magari ci ha riprovato, riuscendoci, sempre che chi alloggia al Cremlino lo voglia accogliere, visto il disastro che ha combinato. Ma potrebbe anche essere in qualche lembo dell’est ucraino o della Crimea, coperto da chi non gli ha ancora voltato le spalle. Ammesso che abbia ancora sponde, che siano nei servizi o nel Partito delle regioni, che lo ha ripudiato, in tutta fretta, dopo averlo sostenuto compattamente fino a qualche giorno fa. Qualcuno, infine, mormora che già sia stato arrestato. Le voci si moltiplicano. Le tracce sono tante, tutte poco chiare. Le uniche sicure sono quelle che l’ex capo dello stato ha lasciato nel corso della sua lunga carriera politica. Proviamo a seguirle. Ripercorriamo la sua parabola.
Viktor Yanukovich nasce nel 1950 a Yenakieve, centro urbano che conta oggi centomila abitanti, situato nell’oblast (regione) di Donetsk, il più grande bacino industriale dell’ex repubblica sovietica. Il cosiddetto Donbass. Carbone e metalli le due attività che ne trainano l’economia. Perde a due anni la madre, un’infermiera. Poco più tardi muore anche il padre. Viene cresciuto dalla nonna. In età adolescenziale subisce due condanne penali, nel 1967 e nel 1970. Rapina e rissa. Inizia poi a lavorare nell’industria del Donbass, ramo trasporti. Si laurea, prende la tessera comunista, diventa anche dirigente d’azienda.
Nel 1991 crolla l’Urss, nasce l’Ucraina indipendente e l’economia passa dallo stato a una ristretta cerchia di privati, non senza processi opachi, se non criminali. È la genesi del sistema oligarchico ucraino, dove a differenza della Russia di Putin non sono gli affari a dipendere dalla politica, ma quest’ultima a prendere ordini dai primi. L’area di Donetsk, con la sua concentrazione di miniere e fabbriche, si afferma come il centro principale del potere oligarchico. Rinat Akhmetov è l’uomo che più di ogni altro accumula risorse.
Gli oligarchi del Donbass, a metà degli anni ’90, realizzano che per contare ancora di più a Kiev serve un vero partito e servono dei deputati. Nel 1997 viene fondato il Partito della rinascita regionale (diverrà Partito delle regioni nel 2001), legato alla finanza oligarchica e propenso a mantenere rapporti forti con Mosca, anche se non di totale vassallaggio. In quello stesso anno Yanukovich diventa il governatore dell’oblast di Donetsk, dopo essere stato cooptato nell’esecutivo regionale, come numero due, da appena qualche mese. Prima di allora non aveva avuto cariche politiche. È chiaro: Yanukovich è l’uomo di Akhmetov e degli altri industriali, è manovrabile. Ma ha anche ambiziosi personali enormi, come vedremo tra poco.
L’esperienza a Donetsk dura fino a quando nel 2002 il presidente Leonid Kuchma, sotto il quale il sistema oligarchico ha assunto la sua forma pervasiva, lo nomina primo ministro. Nel 2004 Yanukovich si candida alla presidenza. Va al ballottaggio contro Viktor Yushchenko, vince. Ma scoppia la protesta, si grida alla manipolazione del voto. Yushchenko e l’alleata Yulia Tymoshenko portano migliaia di persone in piazza. Si pretende, ottenendola, la ripetizione del ballottaggio. Stavolta la conta premia Yushchenko.
La stagione arancione evapora rapidamente. I ricatti energetici dei russi e la rivalità tra Yushchenko e la Tymoshenko, nominata primo ministro, fanno saltare la coalizione. Si va alle urne. Yanukovich si afferma e va a fare il primo ministro. È il 2006. Seguono mesi infuocati, di presunte compravendite di deputati e tensioni con il presidente Yushchenko, che nell’autunno del 2007 scioglie il parlamento e rimanda tutti a votare. Il Partito delle regioni si assicura la maggioranza relativa, ma non riesce a formare una coalizione. Tocca ancora alla Tymoshenko, che governa fino al 2010, quando a inizio anno si tengono le presidenziali: il vero, grande obiettivo di Yanukovich. Riesce a centrarlo, anche grazie a una campagna che punta a svincolarlo dall’immagine di uomo legato alla Russia. Sconfigge la Tymoshenko al secondo turno e prende possesso delle stanze della Bankova, sede della presidenza.
Da capo dello stato sdogana la sua voglia incontenibile di strapotere e di soldi. La storia della sua presidenza dice che ogni decisione, ogni manovra, ogni nomina, è stata organica a questo scopo. Yanukovich ha cercato innanzitutto di diluire il peso di Akhmetov, concedendo sempre più spazio, nel Partito delle regioni, in parlamento e nelle istituzioni, a Dmytro Firtash, barone dell’energia. Non è della cricca del Donbass. Perché tutto questo? Semplice. Mettendo un contrappeso a quelli del Donbass, che hanno comunque continuato a lucrare pesantemente, Yanukovich ha cercato di ritagliarsi spazi di manovra maggiori.
Rientra in questa logica il ritorno alla costituzione presidenzialista in vigore prima della rivoluzione arancione, che impresse invece una svolta parlamentarista. Rafforzati formalmente i suoi poteri, Yanukovich ha iniziato a piazzare i suoi uomini nei posti che contano. Solo due esempi. Serhiy Arbuzov, ritenuto il suo ragioniere, è andato alla Banca centrale. Al vertice del fisco è stato messo invece Oleksandr Klimenko, vicino a Oleksandr Yanukovich, uno dei due rampolli dell’ex capo dello stato. Su Oleksandr Yanukovich va fatto un discorso più ampio. È il titolare della holding di famiglia (Mako) e in questi anni le sue fortune sono lievitate notevolmente. C’è quasi l’impressione che gli Yanukovich abbiano voluto elevarsi a oligarchia e che anche la politica estera sia servita a questo. Yanukovich ha cercato di non farsi assorbire da Mosca e di potenziare il dialogo con l’Europa, tentando tutto sommato di restare nel limbo e dunque di evitare controllori esterni troppo curiosi. Ma è finita malissimo.