Era sì un cimitero il Mediterraneo nell’età del bronzo. Eppure, alla fonda, fermentava nella spuma del mare la voce universale della poesia. Il prototipo di ogni storytelling, capace di scoccare il canto dell’uomo moderno, mise in versi tra il levante e il ponente dell’Egeo le gesta del re di una piccola isola. Un marinaio.

Mondadori Electa pubblica Odisseo: il racconto in cinquanta folgoranti episodi della storia di un attore «dalla mente versatile», attraverso i testi di Valerio Massimo Manfredi e le illustrazioni di sua figlia Diana (pp.147, euro 19,90). La particolarità del libro consiste nella scelta di confezionare in ordine cronologico la trama vissuta dall’itacense, dipanando il filo di Arianna delle tante narrazioni che parlano di lui, per riconsegnare al lettore la figura a tutto tondo di una biografia concreta: dalla nascita, al suo primo incontro con Penelope, passando per l’assedio di Troia, l’ira di Achille e i viaggi filmati dal secondo poema omerico. Lo scrittore e l’illustratrice congedano Ulisse concentrandosi sulla prosecuzione della sua vita dopo il ritorno in patria e riallacciandosi con un’epopea continentale annunciata e mai composta da Omero.

Da qui inizia il colloquio degli autori con il manifesto. Dalla forza d’impatto di una doppia pagina dischiusa nell’epilogo: il nostro avanza nella neve tra i monti con un remo sulla spalla, le vesti sconvolte dalla tormenta.

«È la premonizione di Tiresia, l’indovino evocato dall’Aldilà nel libro XI dell’Odissea», spiega Diana. «Un viaggio verso una misteriosa meta agli antipodi del mare, dove un viandante avrebbe chiesto a Ulisse se il remo che portava con sé fosse una pala per separare la pula dal grano». Lì l’eroe avrebbe immolato un toro, un verro e un ariete, prima di riprendere la via del ritorno. Qui hanno dispiegato le loro ali le fervide fantasie di Pascoli, Kavafis, D’Annunzio, Joyce.

«Ho immaginato lo scenario di un entroterra ammantato di bianco per esemplificare l’abisso che allontana Odisseo dalle sue radici. Siamo ex abrupto in una realtà aliena al Mediterraneo e il volo degli uccelli sullo sfondo è il subconscio di un viandante che volle varcare il limite del tempo e dello spazio, al fine di sperimentare davvero cosa significasse essere un uomo».

Difficile comprendere il mondo di Odisseo prescindendo dall’universo che l’aveva generato. Omero sembra rimarcare lo stacco bruciante tra due generazioni contigue. Ulisse appare simile a un Robinson Crusoe che sa di dover contare soltanto sulla sua intelligenza, seppur con l’appoggio di Atena. È un uomo che non di rado pare pazzo, la cui oratoria con «parole simili ai fiocchi di neve d’inverno» non teme rivali.
«La generazione degli Argonauti, quella di suo padre Laerte, tra i seguaci di Giasone alla ricerca del vello d’oro sulla nave Argo, è a metà strada tra mito e epos», chiarisce Valerio. «Apparteneva a un’altra era, a una stirpe di eroi che aveva nelle vene ancora le ultime stille del sangue degli dei». Svanivano invece nella nebbia, intorno a Ulisse, i «tempi che ai monti stridevano ancor le Chimere», rimpianti con commozione da Giovanni Pascoli.

Il padre dell’argonauta Eracle, figlio dell’umana Alcmena, era l’onnipotente Zeus. Il protagonista dell’Odissea è, al contrario, un re che parte per la guerra e, al culmine di terrestri peripezie, trova la casa invasa da arroganti rivali: un tema comune nella tradizione popolare coeva. «Questo è l’epos: un evento accaduto nella realtà che, in seguito, diventerà oggetto di canto. Io lo ricostruisco risalendo alla fase precedente la mediazione cantata dai poeti. ’Atta, padre, raccontami’, dice il mio piccolo Ulisse a Laerte. ’No, aspetta che sia l’aedo Femio a farlo, lui ti narrerà una storia bellissima’. E qui il bambino lo sorprende: ’No, atta, voglio saperla da te: voglio la storia vera’. È, questa, una curiosità già moderna».

Achille è un monolite, una macchina da guerra coperta di metallo. Ulisse è un personaggio di transizione. «Se sa battersi come un leone, spesso ha tuttavia paura», sottolinea l’archeologo e scrittore. «Durante un’importante battaglia i troiani colpiscono l’auriga di Nestore; il carro si rovescia e il re di Pilo rotola a terra. Ettore, vedendolo in difficoltà, si lancia contro di lui per finirlo. Diomede chiama allora in soccorso Odisseo, che non lo ascolta e si ritira a gambe levate verso le navi. Nello stesso passo l’itacense è chiamato sia divino e glorioso, sia vile».

Il suo grado di umanità aumenta passando dalla narrazione iliadica della guerra, che per Omero non ha un senso né una logica, alla sfida contro la natura eternata dall’Odissea, quasi un contrappasso per le violenze disumane commesse nei dieci anni di conflitto. È ormai tempo di nòstoi, termine che indica i tanti poemi greci dedicati al ritorno dei re achei da Troia. L’etimo è presente anche nella radice di nostalgia: «dolore del ritorno». Una pena che nasce dall’attaccamento a quello che si ha e si rischia di perdere. La vita, più di ogni altra cosa.

«Nel canto XI dell’Odissea, l’ombra di Achille appare a Ulisse nell’Ade. Nulla più rimane in lui degli ideali eroici. Al re di Itaca, convinto che il pelide resti un sovrano tra le larve degli inferi, il guerriero che fu controbatte: ’Preferirei essere l’umile servo di un padrone povero e diseredato, piuttosto che regnare su tutti i morti’. E, infine, aggiunge tagliente: ’Non lodare la morte, splendente Odisseo’». Vero, perentorio, umano. Su queste basi l’Odissea, lodando l’amore per un’esistenza preziosa proprio perché irripetibile, costruirà il preludio al mondo del tempio dorico e dello stile geometrico: l’alba del miracolo greco.

Le pagine del libro insistono su particolari meno noti del rapporto di Ulisse con le donne: dal nido d’amore ancorato su un ulivo per celebrare la sposa Penelope, il cui nome significa anatra, agli onori tributatogli da Elena tra le mura di Troia. La bella fanciulla racconta a Telemaco, giunto a Sparta per cercare notizie sul padre, un episodio inedito: un giorno Odisseo, camuffato da troiano, si era intrufolato nella città. La sola Elena lo riconobbe; lo invitò nella sua casa, gli fece il bagno ungendolo d’olio e, ormai pentita, gli diede informazioni utili. «Una scena molto intima, quasi la ritualizzazione dell’offerta di un rapporto sessuale: la stessa che Odisseo avrebbe rifiutato a Nausicaa».

Ulisse è comunque un re dell’età del bronzo, che impicca per vendetta le ancelle traditrici, considerate proprietà personale. Odisseo è un marinaio atteso da un’innamorata in ogni porto, per quanto tutte loro siano diverse facce della sola donna ancestrale che egli ama, aspetti cangianti dell’unica femminilità con cui deve senza posa confrontarsi. Lui, astuto, sa sempre quando lasciarsi andare e quando fermarsi. «Troviamo un’intuizione felice nel film Ulisse, diretto nel 1954 da Mario Camerini», ricorda Valerio. «Nel lungometraggio, Odisseo – Kirk Douglas, ogni qual volta guarda Circe, vede il volto di Silvana Mangano, l’attrice che interpreta anche Penelope».

Circe è la donna maga: «con inganno m’adeschi / a entrare nel talamo, a salire il tuo letto, / per farmi poi, così nudo, vile e impotente». Quel che conta per Odisseo è che, pur nei suoi tradimenti, non perde mai la memoria della sposa, alla quale si aggrappa nei momenti peggiori.

Nausicaa è l’ingenuità della fanciulla, e ne rispetta l’innocenza. Elena, la perla più bella, è per lui null’altro se non tutte le femmine del mondo. «Per disegnarla, ho sovrapposto diversi volti alla ricerca della perfezione del canone ideale», racconta Diana. «Le donne incontrate da Odisseo lo strappano al suo scopo: una direzione vissuta con coerenza. Calipso è colei che deraglia gli uomini; è una dea dalla sensualità oscura, esibisce la compenetrazione totale e assoluta tra due corpi, quello divino e quello umano». Tutto quello che non dominiamo, per Ulisse, è un dio.