Vinicio Capossela non è legato alla sua terra d’origine, ne è l’espressione vivente e pulsante. Il destino lo ha fatto nascere in Germania, perché in certe terre d’Italia la vita è aspra e per poter campare si va lontano. Ma il babbo di Calitri e la mamma di Andretta, poco più in là, sono radici che lasciano segni incancellabili.

La zona è quella dell’Alta Irpinia, provincia di Avellino, pochi passi verso Sud e si è in Basilicata, una manciata di chilometri verso nordest e ci si trova in Puglia. Calitri è lassù, solo 600 metri sul livello del mare, ma la distanza è abissale, e soprattutto è una terra che talvolta si scuote, come i cani quando vogliono scrollarsi di dosso l’acqua. Chissà se questo non abbia a che fare con San Canio che dovrebbe proteggere il paese. Ora in parte disabitato, con quell’unico orologio fermo alle otto meno venti, come se la disgrazia avesse davvero fatto fermare il tempo.

Una rocca dove soffia il vento e tocca ripararsi la testa, per questo è il paese dei coppoloni. In quel luogo, il paese dell’eco, Vinicio si è inventato un festival, il Calitri Sponz fest (si tiene a fine agosto), a quella zona e ai suoi abitanti ha dedicato un libro, Il paese dei coppoloni (Feltrinelli editore), a partire da lì ha realizzato un film, Vinicio Capossela nel paese dei coppoloni (per la regia di Stefano Obino, in programmazione al cinema il 19 e 20 gennaio) in attesa che arrivi a breve il nuovo disco Canzoni della Cupa.

Il film si apre su vecchie immagini di matrimonio, anzi sposalizi come li chiama Guarramone (questo il soprannome locale di Vinicio, perché qui tutti ne hanno uno) raccontando peraltro che «il tempo non si è mai sposato per poter fare quello che voleva». Sposalizi che aprono e chiudono il racconto, come un filo che lega il film, come la braciola legata col filo e gli ziti, gli sposi, che vengono interamente imbozzolati dalle stelle filanti che gli invitati, gli amici e i compaesani gli hanno avvolto intorno. Una ritualità condivisa, praticamente persa sotto i colpi della cementificazione di tutto, cuori compresi.

Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando? Musica? Chiede reiteratamente Capossela. Così affiorano luoghi e persone si affacciano nel racconto, dalle mammenonne che cantano in coro a Ciccillo di Benedetto, che invece canta liriche da solista con una voce invidiabile. Peppe Matalena invece suona, l’organo sopra la sacrestia, mentre i maturi coristi locali cantano in un latino perso nei tempi.

Del resto Orazio è nato poco lontano e ha cantato spesso l’Ofanto, l’Aufidus, che incrocia nel suo percorso la ferrovia, ora in disuso e arrugginita, ma quale orgoglio e gioia nelle immagini d’epoca del Luce. E ancora la banda della posta, un gruppetto di cinque suonatori di musiche d’altri tempi che hanno saputo far ballare alle feste intere generazioni, oggi ostinati nel fare la guardia alla Posta suonando anche se nessuno più li ascolta. Poi c’è Sicuranza Giovanni, il barbiere, detto il veloce, perché depositario di dialetto e aneddoti un taglio da lui prende almeno un paio d’ore. Senza dimenticare Armando Testadiuccello, cieco, depositario di ogni mito che poi canta come fosse la memoria di quel mondo, creatore di soprannomi come quel Guarramone affibbiato a Vinicio o come il misterioso Ting Ting che rievoca il suono del campanaccio del bue e che così impreziosisce la prosaica definizione di cornuto.

C’è però un momento in cui tutto prende il volo. Guardando quella trebbiatrice inquietante, piovuta laggiù dalla nordica Tortona per separare il grano dalla pula, divenuta un ammasso di ingranaggi arrugginiti Vinicio parla di mietitura e di riti collettivi. Poi però quella trebbiatrice dismessa si rianima per opera del Tenente Dum (fantastico lavoro di Marco Stefanini) e diventa La trebbiatrice volante, un oggetto reinventato che sarebbe piaciuto a Duchamp.

E ci si libra pur senza alzarsi davvero da terra, un’immagine tanto efficace da essere diventata manifesto del film dopo avere tenuto banco allo scorso Sponz fest. «Un viaggio onirico alla ricerca di personaggi, canti e siensi perduti», laddove li siensi, in dialetto calitrano, indicano un concetto ancestrale che si potrebbe definire tenere la capa sulle spalle.