Katmandu non è solo la capitale del Nepal, o una città i cui monumenti sono patrimonio dell’umanità. Sotto le macerie dei terremoti di questi giorni, insieme ai corpi delle migliaia di persone decedute, rischia di scomparire non solo un numero impressionante di vite umane e di costruzioni millenarie, ma lo sfondo immaginario di un’intera generazione occidentale che, negli anni ’60 del secolo scorso, intraprendeva il «grande viaggio verso l’Eden» alla ricerca di un Sé già perduto nella luce dei neon della nascente civilizzazione dei consumi.

Era una generazione che veniva definita «alternativa», hippy e beat che non credevano più alle ideologie di liberazione prodotte da quello stesso Occidente che si lasciavano alle spalle, al loro determinismo, al materialismo che poggiava il suo agire più sull’organizzazione delle masse che non sulla consapevolezza del singolo. Le droghe psichedeliche, l’hascisc, ma anche un certo uso degli oppiacei, erano il viatico per intraprendere un «trip» dentro e fuori di sé, strumenti di conoscenza che avevano i loro testi sacri ne Le memorie di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey, o ne I paradisi artificiali di Baudelaire, sino ad arrivare ai nuovi teorici della psichedelia come Timothy Leary, il profeta dell’LSD. Veri e propri manuali di studio, sui quali ci si concentrava per preparare ogni singolo tiro di chilum o viaggio con l’acido. Questi libri erano un must nello zaino di quei viaggiatori d’Oriente che raggiungevano la capitale del Nepal per cercare l’essenza spirituale di una civiltà allora ai limiti del mondo, dove ogni gesto quotidiano era ancora impregnato di sacralità, ogni azione un sacrificio ad una divinità benevola che favoriva l’ascesa spirituale.

Nessuno di quei pellegrini pensava di arrivare a Katmandu in aereo. Anche perché allora al massimo si poteva sbarcare in India per poi intraprendere l’ultimo tratto che, dalla piana della Ganga, portava verso le vertiginose altitudini nepalesi. Ma i più arrivavano in città via terra, con pulmini malamente attrezzati per attraversare la Jugoslavia di Tito, la Grecia dei Colonnelli, e poi la Turchia dalle terribili galere proibizioniste, la Persia dello Sciah, l’Afganistan ancora monarchico, il Pakistan sempre immerso nelle permanenti rivolte tribali verso il Kayber pass, l’India poverissima e affascinante, per giungere infine al flash dei pinnacoli della ineffabile città ai piedi dell’Himalaya, che oggi scuote e stritola con la sua massa tellurica gli antichi Stupa buddisti.

Quelli, anche se fatti da soli, con i mezzi locali, autobus e corriere, o con il leggendario Maggiolino che attraversava col suo instancabile motore raffreddato ad aria i deserti iranici, erano comunque viaggi collettivi.

Sempre si teneva un diario, sempre si lasciava a chi avrebbe seguito, una «dritta». Ristoranti, alberghi a pochissimo prezzo, spesso delle vere e proprie stamberghe, erano la meta di centinaia di speranzosi cercatori della Verità, magari rivelata da un grano di Afgano nero, il favoloso hascisc che si favoleggiava mischiato con oppio, oppure dai letali cristali di eroina comprati a Quetta in Pakistan e gelosamente nascosti nel fondo del sacco a pelo da tirare fuori al cospetto della luna crescente alla sommità di un tempio shivaita.

Molti hanno perso la vita in questo modo, molti di più la mente, ma nella memoria collettiva di quella generazione di avventurieri dello spirito, tutte le esperienza hanno lasciato un segno, una traccia che indicava qualcosa di più e di diverso dal fatto che la rivoluzione fosse solo una questione di rapporti di forza materiali. La certezza che potesse e dovesse esister un altro comunismo, un’altra maniera di arrivare alla liberazione personale e collettiva, nasceva in quel luogo dall’intuizione che prima di tutto bisognasse tornare ad attingere alla fonte che unifica le esistenze. E nessun luogo sulla terra come Katmandu era la forma stessa di questa sostanza sottile, che tutto pervadeva.

Errando tra i templi di notte, nel silenzio rotto solo dalle preghiere, si aveva l’impressione, forse solo l’illusione, di entrare in un labirinto costruito affinché ci si potesse perdere per poi ritrovarsi. Illusione, sì, ma non è forse l’in-lusio, l’entrare in gioco, ciò che rende così fascinoso continuare a cercare qualcosa che forse neanche esiste? Non sappiamo ora se sarà possibile ricostruire Katmandu, ma chi ha a cuore ciò che ha rappresentato quel passato, e ciò che ancora rappresenta per chi la vive ogni giorno, dovrà trovare il modo di impegnarsi a far rivivere una terra favolosa perché se il suo mito scompare una parte di noi muore con esso.