«Eccetera, perché la minestra si fredda», appuntava, con un ghiribizzo, Leonardo da Vinci, interrompendo certe riflessioni geometriche tramandateci dal codice Arundel. La mano, pròtesi della mente, non riesce ad afferrare al volo e a trasferire sulla carta i lampi dell’immaginazione, velocissima; la scrittura urge nella penna per trasformare l’idea in traccia, in segno permanente, ma il tempo stringe, la vita si impone. Allora la mano ricorre a una stenografia del pensiero, timida sineddoche di avvenire, vana promessa di un ritorno sul tema: eccetera… Anche Leopardi costellò lo Zibaldone di eccetera, come un appuntamento dato a sé stesso per non lasciare incompiuta un’idea inespressa. La mano, scrivendo, si lascia andare verso l’infinito, si sforza di assorbire nel testo lo spazio e il tempo. Vorrebbe procedere ininterrotta, sfidando i limiti naturali: il tempo dell’esistenza, lo spazio del corpo che fissa dei segni su un supporto destinato a raggiungere altri uomini. Con quella mente che sta scrivendo dialogheranno in un piccolo, eroico braccio di ferro contro l’ora tarda della notte, la fine dell’inchiostro o della carta, la fine della vita.

Il pensiero prende corpo
Nell’Antropologia della scrittura (Mondadori, 1982) Giorgio Raimondo Cardona, etnolinguista e glottologo magistrale, fra i primi ha messo in luce l’importanza della relazione fra la mente istantanea e la lenta mano che lavora la materia, crea manufatti e opere d’arte, allinea lettere per dare corpo di parola al pensiero. A lui si deve un’importante riflessione sugli «aspetti antropologici e sociologici dell’uso dei sistemi di comunicazione grafica (…), di quel che la scrittura significa per il singolo e per il gruppo, di come essa sia stata utilizzata, in breve di tutti gli aspetti al di fuori e all’intorno del sistema grafico vero e proprio».

Accanto e in dialogo con Cardona, sulla stessa lunghezza d’onda anche se in un diverso campo scientifico, lavorava Armando Petrucci, che nel 2009 scrisse una bella introduzione alla ristampa per Utet dell’Antropologia della scrittura. Petrucci è il più grande paleografo del nostro tempo, non solo in Italia. Ha fondato e diretto a lungo Scrittura e Civiltà, una rivista che ha aperto orizzonti straordinari sulla storia delle scritture e sul gesto dello scrivere, sempre in equilibrio originale fra ricerca storica, paleografica e antropologica. Con un’attività formidabile di riflessione sul metodo e di studio specialistico applicato alla storia materiale dei libri, ha contribuito come pochi a trasformare la paleografia in una scienza dello spirito incarnato nel movimento della scrittura, dimostrando come le strutture del pensiero si riflettono nell’invenzione di modi di produzione e di organizzazione dei testi, nella forma materiale dei libri, nell’architettura segreta delle pagine.

Rapporti di scrittura
La paleografia è diventata un’imprescindibile funzione storiografica, in particolare nel campo della letteratura, con Armando Petrucci e la sua scuola (uno per tutti, Marco Cursi, autore delle più innovative ricerche su Giovanni Boccaccio editore dei testi propri e altrui e di un recente manuale, prezioso per l’ampiezza dell’orizzonte e per la ricchezza documentaria: Le forme del libro. Dalla tavoletta cerata all’e-book, Il Mulino 2016). Oggi Carocci raccoglie venti saggi di Armando Petrucci di importanza strategica per leggere in una dimensione nuova la vicenda millenaria della nostra civiltà letteraria, in Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura (pp. 726, 169 tavole, € 59,00). Da questi scritti, divenuti fondamentali via via che uscivano, abbiamo imparato a ripensare la storia della letteratura come storia della mano autoriale che scrive per rappresentare agli occhi di chi leggerà le idee elaborate nella mente creatrice, e insieme come testimonianza di un dispositivo culturale che, trasmettendo messaggi, codifica maniere di pensare e di guardare la realtà, esprimendola graficamente. Nel passaggio dall’autografo alle copie su cui i copisti faticano per trasferire il testo verso l’Altro (altri tempi, altri spazi, altre culture) si introducono non solo errori, ma metamorfosi della messa in pagina, dell’«ordine mentale e grafico» che imprime una segnatura indelebile al testo nel suo diventare libro.

La scrittura, ci ha insegnato Armando Petrucci, è insieme traccia grafica e specchio di una visione del mondo. Per comprendere appieno la mutevole tradizione e fortuna dei testi occorre riconoscere la forma organizzatrice della grafia e dell’impaginazione nella metamorfosi lungo il tempo, saper valutare «le tecniche, i modi di operare, i risultati diversi» derivanti da «atteggiamenti mentali» legati all’epistéme di ogni età e «da processi educazionali e da livelli culturali profondamente differenti».

La pratica speciale di «scrivere» un testo di natura letteraria può essere analizzata dal paleografo e dal filologo in fertile solidarietà. Petrucci ha ideato l’efficace formula «rapporto di scrittura» per indicare «il tasso di partecipazione diretta, cioè propriamente grafica, dell’autore all’opera di registrazione scritta di un suo testo in una qualsiasi fase dell’elaborazione, dal materiale preparatorio alla prima traccia, agli abbozzi, fino alla stesura finale». Questo «rapporto di scrittura», del quale il volume di Petrucci fornisce una fenomenologia di straordinaria vastità e varietà, «si presenta in modi assai diversi all’interno delle diverse aree culturali e linguistiche occidentali, ma soprattutto con diverso rilievo e diverse caratteristiche». La filologia, che scruta le increspature, le faglie del testo per coglierne la dinamica genetica e la storia della trasmissione e ricezione, può giovarsi dell’impostazione paleografica intesa a rendere trasparenti «la natura e la finalità degli interventi», «le tecniche esecutive», «la gestione degli spazi di scrittura e riscrittura», «i tempi di esecuzione e dunque gli strati geologici delle operazioni correttive, sostitutive o aggiuntive». Le due operazioni sincrone della mise en texte e della mise en page convergono nella costituzione di un testo nel libro: e noi dobbiamo tentare di ricondurre il testo, giunto a noi attraverso libri sempre diversi, alla forma in cui l’autore lo pensò e lo scrisse.

Una cultura provinciale
Come dichiara il titolo del saggio più esteso del volume (il quale contiene fra l’altro gli studi importantissimi sul Canzoniere Vaticano, sull’autografo del Decameron, su Libro e scrittura in Francesco Petrarca), nasce allora una Storia e geografia delle culture scritte. Si ricostruisce così un formidabile arco di storia della civiltà letteraria italiana dall’XI al XVIII secolo, ricco di analisi di dettaglio, capace di restituire la trama di pratiche sociali conservate per inerzia ma interrotte da improvvisi, «fittissimi sommovimenti» innovativi, che definiremo catastrofi (in questi termini paleontologi e geologi quali Stephen Jay Gould e Niles Eldridge descrivono l’evoluzione delle specie).

Uno dei nodi cruciali di questa vicenda è il Trecento, in cui del «”tessuto” omogeneo di cultura scritta che si veniva formando nell’Italia del tempo, la Commedia dantesca finì per costituire lo strumento connettivo ed espansivo essenziale». E poi il Quattro-Cinquecento, con l’introduzione della stampa e lo spalancarsi di una Babele caotica di editori che avviano alla fruizione moderna il libro grazie a strumenti paratestuali (a partire dal frontespizio e dagli indici) che oggi riteniamo organici al libro, e che invece nacquero per «ragioni di commercializzazione di un prodotto che sempre più di frequente veniva esposto alla vendita su banchi e strutture esterne di librai fissi o anche in spazi aperti». Infine il venire alla luce, fra Sei e Settecento, della consapevolezza che «l’Italia (…) possedeva una cultura letteraria non nazionale, ma provinciale, non solo nel senso di isolamento e di dipendenza dal resto dell’Europa, ma anche di mancanza di un’unitaria circolazione interna di idee e di libri dipendente dall’esistenza di rigide separazioni regionali». La vicenda del «blocco» regionalistico e del provincialismo italiano, che un intellettuale «europeo» come Leopardi descriverà con lucido distacco antropologico, emerge chiaramente dalla storia dello scrivere.