Nei molti cambiamenti portati dal lockdown è apparso ben presto che delle consuetudini di quella che qualcuno già definisce «la vita di prima» erano più colpite; lo spazio condiviso in particolare, con quanto a ciò rimanda come il cinema nella sua fruizione in sala o lo spettacolo dal vivo. E se col passare delle settimane il cinema si è spostato sempre più sulle piattaforme – in che misura l’accelerazione di un processo già in atto si sia radicata strutturalmente, cioè nel sistema è ancora da capire – gli eventi dal vivo hanno faticato a rimodularsi. Del resto: si può immaginare nella «Netflix della cultura» il teatro online, una pratica che anche nelle sue declinazioni più immateriali, nelle ricerche che mischiano forme e mezzi, vive (appunto) nell’incontro, nella performance dei suoi interpreti e del pubblico?

È PERCIÒ una bella notizia che alla riapertura molti festival teatrali sono ripartiti in presenza, con tutti gli accorgimenti necessari ma permettendo quell’incontro, quello spazio collettivo che la pandemia aveva precluso. Tra questi il Napoli Teatro Festival – con un fitto cartellone che andrà avanti sino al 31 luglio – diretto da Ruggero Cappuccio, e trovarsi sotto alle stelle dell’estate, nel magnifico cortile di Palazzo Reale, era già di per sé un evento: a attendere il pubblico, tra le sedie distanziate, il gel, la presa della temperatura corporea, e quel sentimento di felicità di esserne parte, c’era Mephistopheles Eine Grand Tour, il nuovo lavoro di Anagoor, il gruppo veneto fondato nel 2000 da Paola Dallan e Simone Derai che oggi ne è alla direzione insieme a Marco Menegoni, con la complicità di «presenze costanti» come si legge sul loro sito tra cui Giulio Favotto – che del Mephistopheles firma la direzione della fotografia – e Mauro Martinuz a cui si deve invece il sound design e la musica.

All’inizio di questo grande viaggio c’è, naturalmente Goethe col suo Faust, e a lui rimanda anche il «Grand Tour» che lo aveva portato tanti anni prima in incognito, con passaporto falso, a percorrere nel 1786 – come scrisse al duca Karl August «regioni in cui nessuno mi conosce». Lo scrittore ci appare sullo schermo issato di fronte agli spettatori, quasi una scena verticale, mentre davanti al fuoco sfoglia per l’ultima volta il suo monumentale scritto, è anziano ormai, lo aspetta la morte almeno quella del corpo perché la sua «immortalità» sarà invece proprio la sua creazione.

QUI PERÒ, a prendere la scena, non c’è Faust ma Mefistofele, colui che lo tentò con le sue promesse di vita eterna, che è tenebra, parte oscura del cosmo, violenza, sopraffazione – nell’umano, nella natura e nelle loro relazioni, nel tempo, nell’assoluto. Un mito, eterno come il presente.
Cos’è dunque questo Mephistopheles definito dagli autori un «concerto cum figuris»? Non c’è un palcoscenico, non ci sono attori, ci sono solo immagini. Un film allora? Non proprio, l’intenzione infatti va oltre le definizioni, sfugge ai generi, alle etichette e prova come è nella pratica del gruppo a spingere ancora più all’estremità quel porsi sul confine di un incontro tra mezzi e modalità di creazione con cui parlare del la realtà.

ANCHE nel cinema scelgono questo punto di vista: non parole, interviste, storie narrate in uno script, solo l’elemento visuale che scorre, respira, trova il suo movimento nel suono, il live set elettronico di Martinuz per condurci in un contemporaneo che è fuori dal tempo, quello dei corpi e delle loro devastazioni, dei soprusi di un capitalismo sempre più accelerato che nega stagioni, desiderio, sentimento, empatia. Uomo contro natura – ma anche uomo contro uomo.
Che sia questo lavoro un passaggio di una ricerca lo dimostra anche il fatto che le immagini il gruppo le ha raccolte negli anni e rimandano a altri spettacoli – Lingua Imperii, Virgilio Brucia, Socrate il sopravvissuto, Orestea, Faust; girate tra l’India, la Grecia, l’Italia ci mostrano templi, musei, paesaggi feriti. L’umano è una casa di cura per anziani – sì, le Rsa che il Covid-19 ha falcidiato – corpi segnati, sofferenti, sguardi che sembrano non cercare più nulla, le teste ciondolano in un sonno continuo, la solitudine. La morte  sono i letti che vengono rifatti, la vita passata poche foto di affetti lontani, fuori di lì, appese al muro: può starci tutta un’esistenza in giorni uguali sconfitti nella speranza dell’eternità? Forse Mefistofele ha mentito.

Di lì si torna indietro, la nascita ma nel mondo animale organizzato dall’uomo, è il pianeta deòl’antropocene: allevamenti intensivi, massacri di animali e di foreste per produrre. Il flusso è finalizzato allo sfruttamento, il corpo animale – e con lui però anche quello umano – non ha altro senso che questo, un obiettivo messo in atto con brutale determinazione. Le vacche sono numeri, i tori sperma, i maiali, i polli fatti nascere senza biologia, il loro ciclo di vita è accorciato per essere messo a frutto, quella con le macchine è la sola relazione che potranno conoscere.
Mephistopheles – Eine Grand Tour (- è un’opera – o un film «mondo» perché appunto questo percorre nelle sue lacerazioni e incongruenze, che l’esperienza pandemica ha mostrato una volta di più, e le rende visibili senza retorica nella loro evidenza, nelle connessioni che ai discorsi «comuni» sfuggono. È quanto nutre la creazione artistica, e la sua necessità, un gesto politico di consapevolezza.