Ci sono uomini che mangiano la vita con più fame di altri, che hanno bisogno di consumare molto e in fretta ma non possono mai saziarsi perché sono dominati dall’inquietudine, perché hanno bisogno di vivere ogni minuto di un tempo che, chissà, forse sentono breve. Persone iperdotate d’intelligenza, fascino, versatilità e curiosità condannate a percorrere la vita a doppia velocità perché solo così sentono di poterla domare. Artisti, intellettuali, tutti coloro che conoscono il male di vivere e ne sopportano la costante percezione mescolata a una insopprimibile voracità vitale, quando corpo e cervello danzano in armoniosa lotta. Enrico Filippini (1932-1988), detto Nani, doveva essere uno di loro. Non ricordavo chi fosse, come molti della mia generazione (ancora di meno sanno di lui i più giovani), fino a quando 2 anni fa, in occasione del 25° anniversario della sua morte, il suo nome è stato resuscitato grazie alla riedizione de L’ultimo viaggio ed. Feltrinelli e alla pubblicazione delle bellissime interviste 1976-1987 in Frammenti di una conversazione interrotta ed. Castelvecchi, a una serata a lui dedicata all’Auditorium di Roma, e ad uno spettacolo L’ultimo viaggio ( prodotto da pro Helvetia Arttransit) scritto da Concita Filippini, figlia di Nani, e da Giuliano Compagno regia di Marco Solari, che dopo un giro partito da Ascona, Milano, Firenze sarà a Roma il 12 e 13 maggio al teatro Vascello.  «Nella stanza di una clinica, in penombra, un padre e una figlia si abbracciano e iniziano a raccontarsi pezzi di vita. Nessuna tristezza aleggia in quel luogo da dove, entrambi lo sanno, lui non uscirà più. Sono i giorni della memoria e della conoscenza, ritmati da visite continue degli amici, delle donne, Nani ebbe molti amori, che Concita organizza evitando incontri importuni: la Elena compagna nell’ultimo viaggio, l’amica francese con cui collaborò. Il testo mescola i brani delle lettere, quelle vere scritte a Concita, con le interviste e pezzi del racconto, in una drammaturgia ben ritmata e priva di sentimentalismi. «Enrico Filippini è stato un grande intellettuale versatile e finissimo con profonde conoscenze filosofiche, si era laureato con Enzo Paci nel corso di Antonio Banfi, pubblicò un racconto, Settembre, che venne presentato da Umberto Eco, fu tra i fondatori del Gruppo ’63, lavorò per la Feltrinelli per cui tradusse e importò, da Johnson a Grass e Enzensberger, da Frisch a Dürrenmatt, fino alla scoperta e pubblicazione di Garcia Márquez, futuro premio Nobel. Scalfari, accingendosi a fondare il quotidiano La Repubblica, lo chiamò per la pagina culturale. Al giornale (che seguì nel suo trasferimento da Milano a Roma) Filippini rimase fino alla fine della sua vita, scrivendo nel corso di dodici anni oltre cinquecento articoli. Si interessò di teatro, cinema e televisione  Per la Rai tradusse e adattò lo sceneggiato che R. W. Fassbinder aveva tratto dal romanzo di Döblin, Berlin Alexanderplatz; realizzò programmi su Weimar, su Simone Weil, su Orwell, e una serie di film inchiesta sui vincitori della seconda guerra mondiale, Stalin, Churchill, Roosevelt e De Gaulle, che sarebbe bello poter vedere. Non riuscì invece a realizzare un progetto cui teneva molto, e al quale aveva dedicato tempo ed energie: un film sulla vita di Byron (e Shelley), di cui ha lasciato una dettagliata sceneggiatura. Enrico Filippini detto Nani se n’è andato a soli 56 anni ma ha disseminato una grande quantità tracce delle sue passioni, intuizioni, pensieri, è un vero piacere conoscerlo.