Il sistema del tatto, romanzo di Alejandra Costamagna appena pubblicato da Edicola Ediciones (pp.184, euro 15) nell’eccellente traduzione di Maria Nicola, si apre con due epigrafi – una provocatoria, l’altra poetica – di María Sonia Cristoff e Natalia Ginzburg sulla memoria e le genealogie. Una volta letto il libro, però, viene da pensare a una terza possibile epigrafe che forse suonerebbe altrettanto pertinente, e cioè una frase di Giorgio Manganelli rintracciabile in un suo articolo del 1988 su un viaggio a Buenos Aires, ora nel volumetto Ah, l’America! (MDS 2017): «Ma in realtà tutti gli argentini sono degli immigrati; dunque gli argentini sono degli stranieri; e tuttavia l’Argentina esiste».

QUANTO SONO o si sentono stranieri i personaggi di Il sistema del tatto, partiti dal Piemonte per trasformare una terra sconosciuta in quello che Manganelli chiama «un luogo stranamente domestico, forse assurdamente domestico», e venirne a propria volta trasformati? E Alejandra Costamagna, le cui origini sono segnate da una doppia migrazione (dall’Italia all’Argentina, i nonni; dall’Argentina al Cile, i genitori, fuggiti per sottrarsi al regime di Ongania), si sentirà o no «straniera» da una parte e dall’altra delle Ande attraversate tante volte nell’infanzia, oscillando ogni estate tra la dittatura di Pinochet e quella di Videla?
Proprio dello sradicamento, dell’estraneità, dell’obbligo di imparare a essere un altro, parla Costamagna in questo suo ultimo romanzo (il quinto, al quale vanno aggiunti sei volumi di racconti), ispirato alle vicende della sua famiglia ma da non confondere con le storie quasi vere prodotte da una consolidata letteratura dell’emigrazione, o dalla cosiddetta autofiction.

Il sistema del tatto va, infatti, al là del memoir e si sottrae a vezzi autoreferenziali, offrendoci un testo aperto alle interpretazioni, denso di omissioni suggestive e di segreti non svelati, attento alla reinvenzione infantile del vocabolario o al suono di due lingue simili e diverse (lo spagnolo cileno e argentino), e pronto a cogliere dettagli solo in apparenza banali, secondo la lezione di Hebe Uhart, grande scrittrice argentina alla quale Costamagna riconosce di dovere molto.
L’inserimento tra un capitolo e l’altro dei materiali di un piccolo archivio familiare – scoperto dall’autrice nella realtà, e dalla protagonista nel romanzo – composto di vecchie foto, pagine di quaderno, lettere, esercizi di dattilografia, brani di romanzi del terrore, citazioni tratte da un Manuale dell’immigrante italiano del 1913, si propone inoltre come una sorta di installazione in miniatura e rinsalda, invece di smentirla, la scelta di imboccare la strada dell’immaginazione, piuttosto che della pura testimonianza o della cronaca familiare, ricomponendo i diversi frammenti per realizzare una costruzione ibrida, letteraria e visuale.

IL VIAGGIO DI ANIA, che torna nel paesetto dei nonni argentini per seppellire l’ultimo membro della famiglia rimasto laggiù, si trasforma così in un va e vieni tra il suo presente e il passato di Agustín, aggrappato per tutta la vita alla sua macchina da scrivere e, un tempo, ambiguamente ossessionato proprio dalla chilenita bambina. Unico della famiglia a non essersi mai mosso dal luogo dov’è nato, Agustin è cresciuto all’ombra tormentata della madre, spedita in Argentina per sposare un cugino sconosciuto e scivolata a poco a poco nella follia: ed è lei, Nelida, la figura più potente, sfuggente e misteriosa del romanzo.
Tra scoperte e illuminazioni, carte e foto la rivelano come una donna moderna, dattilografa di mestiere («il sistema del tatto» è un metodo di scrittura che consente di non guardare i tasti), bella e vivace: il contrario, dunque, della «zia pazza» che Ania ha visto trascinarsi in un’impenetrabile oscurità, sopraffatta da una vita non sua, dall’impossibilità del ritorno, da un paese percepito sino alla fine come estraneo e incupito dal macabro sottofondo della dittatura.
All’identità spezzata di Nelida e Agustín corrisponde quella incerta di Ania, che non sa e non vuole inserirsi nella «normalità» proposta dalla famiglia e dal mondo del lavoro (né moglie né madre, si trova meglio con gli animali e le piante che con le persone, ha perso il posto di insegnante per «scarsa severità» e vive di lavori precari).

OGNUNO DEI TRE, a suo modo, ha provato a resistere e a rifiutare il manuale di istruzioni offerto dalla società, sentendosi tenacemente «straniero». Ed è nel continuo stabilire corrispondenze tra la storia di tutti (le ondate migratorie e il modo di accoglierle, i nazionalismi vecchi e nuovi, i processi di integrazione, la xenofobia) e quella intima e minima dei singoli, che il romanzo si conferma tra i migliori di un’autrice dalla scrittura limpida e implacabile che a suo tempo Roberto Bolaño volle inserire in una triade di formidabili ragazze cilene (le altre due sono Lina Meruane e Nona Fernández) «pronte a mangiarsi il mondo»: leggendo Il sistema del tatto, come non dare ragione alla sua profezia?