È stupefacente come si trovino ancora i plasticati, per lo più azzurrati involucri recanti la dicitura 3D, specchio traslucido di chissà quali sogni, quali evasioni in mondi bambineschi, in mostra nei cataloghi anglosassoni, francesi, tedeschi di dvd e Blu ray, non si capisce se rimanenze, residuati di una strategia commerciale fallimentare o reazione a una domanda sia pur minima che ancora resisterebbe.

E allo stesso tempo viene da chiedersi quali possano essere le cause di questo fallimento che mostra all’orizzonte l’estinzione di una delle modalità più eccezionali di fruizione (e proprio di teoria) cinematografica mai concepite, questo visibilio di forme fuori dallo schermo, a invadere e ridurre lo spazio che ci separa dal fenomeno figurale, plastico; un istinto a trascendere le due dimensioni, le posture canoniche della proiezione – io da un lato, passivo, e l’evento saliente che si svolge per suo conto da un’altra parte –, istinto già implicito, perfettamente a fuoco agli albori, in quell’Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat che «in realtà» avrebbe dovuto irrompere nella sala.

LA RISPOSTA per me è innanzitutto di tipo antropologico: la difficoltà, la pigrizia dello spettatore assuefatto ai piccoli schermi a uscire dai canoni del consumo e della visione per immergersi in un’immagine vertiginosa, tracimante, che forse fa paura nel momento in cui disorienta con le sue lastre di luce sporgente, reinventa la propria geografia, la propria fisica; forse anche l’indolenza nell’inforcare gli occhiali, pulirne le lenti con la pezzuola, sopportarne il peso sul naso.

Eppure di recente ho constatato l’esistenza, anzi la resistenza di due edizioni in 3D, una francese e l’altra inglese, di Adieu au langage di Godard, il film che forse più di ogni altro ha portato a compimento i presupposti teorici di questo formato, sovrapponendo moduli, luminescenze, livori come scalcati via dalla pellicola e offerti sanguinosi, flagranti all’occhio ancora violentato da contorsioni di materia, distorsioni, aborti sparati dritti nello sguardo.

OPPURE il capolavoro di Bi Gan, Long Day’s Journey Into Night, passato a Cannes nel 2018 (in Italia in sala la scorsa estate) e ora reperibile in edizione inglese, Blu ray 3D, nonostante l’avvertenza all’inizio dica che non si tratta di un film in 3D e però a un tratto, quando lo fa il protagonista, bisogna mettersi gli occhiali. In effetti l’impressione è che il regista cinese voglia uscire dai formati, dalla codificazione di un evento, quello cinematografico, che mostrava sin dalle sue origini l’inclinazione a essere qualcos’altro da se stesso, un piano del racconto, del tempo sempre in divenire, ibrido, che si mischi con molteplici materiali e linguaggi e sia, più che cinema, esperienza cinematografica.

Così Long day’s inizia in 2D, sorge lentamente da residui, riverberi onirici – il protagonista sogna ossessivamente lei, Wan Qiwen, amore perduto – mischiandosi con le ruggini del mondo, i panorami scalcinati di una Cina periferica, gravitante tormentosamente intorno a Kaili come già in Kaili Blues; stanze tufose in cui piove luce e pioggia, specchi convessi, vetri sporchi che rimandano una realtà scentrata, sontuosamente decrepita, e proiettano un film reversibile, senza inizio né fine, che si specchia in continuazione su di sé, sulla sua superficie occidua, ancestrale.

INFATTI il sogno, il film che Luo Hongwu vede a un tratto attraverso gli occhiali 3D mentre è al cinema – ed è in quel momento, a più di un’ora dall’inizio del film che inforchiamo gli occhiali iniziando il viaggio al termine della notte – non può che essere – eppure essere qualcos’altro perché è sul piano onirico, nel trascolorare, trasmutare delle stesse cose, degli stessi volti di una volta, che si coagula il reversibile, il ritorno nietzschiano ma anche poi soprattutto deleuziano – il sogno da cui Lou s’è risvegliato all’inizio e così via concentricamente di specchio in specchio, come in una famosa foto in cui Deleuze si riflette all’infinito in doppi specchi. È questa realtà riflessa, questa bolla di vetro a specchio, la sostanza del film, la dimensione della memoria intesa non come recupero del passato ma acquisizione momentanea di un tempo acronico, che si piega su di sé confondendo passato e futuro nella simultaneità fugace dell’opera, della poesia.

C’È UN’IDEA di cinema stratificata, complessa in questo autore poliedrico, poeta, fotografo oltre che regista, che assimila Modiano – tutta una poetica della perdita, dei luoghi della perdita fattisi identità –, Celan a Tarkovskij, anche al Tsai Ming-liang dei sottoscala, delle cisterne; eppure un’idea che si compie e s’incarna nell’immediatezza del cristallo, dell’immagine-cristallo, raramente come in questo caso così estroflessa, esemplificata in una forma: cioè nel vetro opaco, riflettente del piano-sequenza finale, un’ora ininterrotta, sospesa, in cui il 3D conferma la sua natura tutt’altro che mimetica, realistica, addentrandosi in un serraglio di strade, rotaie di miniere, muri sporgenti in lamine luminose e non in volumi, che misurano la distanza tra le figure assottigliate, gli spettri, i riflessi di uno spazio vetroso, fatto di specchi dentro specchi.