Sono tanti, troppi, i desaparecidos messicani che scompaiono nel deserto del Sonora per cercare di raggiungere gli Stati uniti. Un viaggio al termine della notte, perché solo quando si abbassano le temperature è possibile per i migranti attraversare il deserto che si estende per più di 1600 miglia fra l’Arizona, la California e il Messico. Il videoartista Joshua Bonnetta e il documentarista e antropologo americano, J.P. Sniadecki per più di tre anni si sono recati in quel deserto inospitale, abitato principalmente da insetti velenosi e cactus, per incontrare la polizia di frontiera, gli operatori umanitari, i migranti sopravvissuti e i trafficanti di esseri umani.

Il film El mar la mar, documenta questa loro esplorazione. Non vi sono talking heads, i volti dei migranti sono negati, e i loro racconti sono accompagnati da paesaggi e immagini di straordinaria bellezza. Il film girato in 16 mm e poi digitalizzato è un collage di linguaggi formali, riprese velocissime di paesaggi si alternano a dettagli di texture del terreno, blow up su cieli sconfinati e insetti, immagini di incendi e campi lunghi in cui la linea dell’orizzonte si confonde con l’immagine di un lungo treno che scompare in lontananza.

Ci si sente in colpa nell’abbandonarsi a tale seduzione visiva perché quelle immagini si contrappongono alla violenza e alla morte presente in quei luoghi, così come accadeva nel doc Nostalgia de la luz di Patricio Guzman, in cui il regista per contrastare l’amnesia della tragedia dei desaparecidos uccisi negli anni della dittatura di Pinochet, ne cercava le tracce e le testimonianze nel deserto di Atacama, in Cile. Uno dei pochi volti mostrati in questa cartografia della sopravvivenza è quello di un uomo bianco, forse un poliziotto di frontiera, che racconta di aver trovato un individuo ustionatosi in un incendio e di averlo soccorso solo dopo aver compiuto il proprio lavoro, ovvero abbattere una mucca precipitata in un burrone e che non era possibile soccorrere.

Si tratta forse di un’indicazione del suprematismo bianco imperante nell’America di oggi, come hanno mostrato agli scontri di Charlottesville in Virginia? In El mar la mar Bonnetta e Sniadecki non fanno nessun riferimento alla cronaca, le atmosfere rimangono liriche, come suggerisce il titolo del film tratto da una poesia scritta da Rafael Alberti nel 1924, anche se è indubbio che gli autori intercettano le distopie del tempo presente.
È Filmmaker Festival in corso a Milano fino al 10 dicembre (www.filmmakerfest.com), a presentare il doc nel concorso Internazionale (oggi, ore 21.30 Spazio Oberdan), insieme ad altre opere altrettanto significative come L’Héroïque lande. La frontière brûle /The Wild Frontier di Nicolas Klotz e Élisabeth Perceval, girato nella «giungla» di Calais, o I Pay for Your Story di Lech Kowalski, che ritrae le forme di resistenza attuate dai suoi concittadini a Utica, nello Stato di New York, per affermare la propria identità e dignità nonostante le precarie e difficili condizioni di vita.

In concorso anche l’ottimo Purge This Land di Lee Anne Schmitt, vincitore pochi giorni fa del premio al miglior film sperimentale ai Los Angeles Film Critics Association Awards. Il racconto del razzismo e della schiavitù in America, indagato attraverso la Storia e l’eredità culturale dell’abolizionista radicale John Brown. Attivista bianco, feroce opponente dello schiavismo, Brown fu condannato a morte nel 1859 per un fallito tentativo di rivoluzione armata. A lui la regista Lee Anne Schmitt dedica un film-saggio estremamente personale, in cui non troviamo proclami politici né statement programmatici quanto un continuo interrogarsi sulle forme della consapevolezza sociale e individuale.

Purge This Land è composto da materiali iconografici eterogenei come fotografie d’archivio, murales, lettering urbani e riprese di luoghi in cui la lotta per l’abolizione della schiavitù ha avuto luogo, di cui però, in molti casi non è rimasta alcuna testimonianza.
Nel documentario Schmitt sottolinea quanto sia importante la volontà e la coscienza politica personale per contrastare l’oblio e la rimozione collettiva della storia. Brown diventa il punto di partenza per interrogarsi sui modi in cui è possibile raccontare la parte più oscura della storia americana per delineare un poema lirico, in cui la colonna sonora, ispirata alla black music, ha un ruolo di primo piano, nell’amalgamare e comporre un affresco sonoro unitario.

«Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato» scriveva William Faulkner. Schmitt individua tracce di eventi e memorie passate per parlarci, anche se indirettamente, della storia di oggi, delle condizioni disumane in cui versano più di 40 milioni di persone. Non ci porta nei mercati degli schiavi in Libia, in cui vengono messi all’asta gli esseri umani come all’epoca della tratta degli schiavi, lo ha mostrato in un reportage la CNN, ma con il suo film ci mette in una posizione forse più scomoda perché tocca corde ancora più profonde, che non vengono anestetizzate dall’attuale saturazione del visibile e dal flusso continuo di informazione presenti nella mediasfera. Filmmaker conferma la sua vocazione di sismografo del reale, in grado di intercettare istanze sociali che ci obbligano a confrontarci con molteplici forme di rappresentazione della realtà.