Gli occhi dei partigiani guardano i passanti da grandi poster affissi come manifesti pubblicitari, quegli sguardi silenziosi punteggiano la periferia di Bologna. Si tratta di Billboards, una delle installazioni che l’artista francese Christian Boltanski ha realizzato in città in un più ampio progetto che si espande in vari spazi: è Anime. Di luogo in luogo, curato da Danilo Eccher. Il museo Mambo accoglie lo spettatore con il battito cardiaco di Boltanski, le sue foto da bambino, ragazzo e anziano, proiettate su una tenda ci aprono le porte di uno spazio che assume la stessa solennità di una chiesa. Nella navata centrale grandi velari ritraggono i volti di uomini e donne, le cappelle intorno contengono ombre, fotografie, oggetti. Il progetto è stato commissionato dal comune di Bologna, città con cui Boltanski ha stretto un forte legame più di vent’anni fa, quando nel 1997 ospitò una delle sue prime mostre in Italia, e nel 2007 quando inaugurò il Museo per la Memoria di Ustica, intorno ai resti dell’aereo abbattuto nel 1980. Abbiamo incontrato l’artista nei giorni dell’inaugurazione.

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Qual è il corpo del suo articolato progetto che invade più spazi urbani?
Dico sempre che sono come gli artisti del Rinascimento. Loro erano invitati da un vescovo o un principe per realizzare le loro opere in chiese e cappelle, io invece sono stato invitato non dal principe di Bologna, ma dai suoi abitanti. Realizzo una serie di progetti, tutti in relazione gli uni con gli altri. La parte centrale è allestita al Mambo, poi c’è una tappa teatrale, decine di cartelloni affissi in vari luoghi della periferia, un’installazione in un ex bunker, e a settembre tornerò per un lavoro con gli studenti. Pongo domande esistenziali su temi universali a cui non ci sono risposte, ogni luogo è legato a un interrogativo e gli spazi determinano il lavoro che si modifica ogni volta. È come impegnarsi in un’opera lirica: c’è la musica, lo spazio, poi si aggiungono le parole. La prima volta che ho visto il Mambo ho pensato a una chiesa con tutte le cappelle intorno. Nelle opere ognuno vede ciò che vuole, filtrato dal proprio vissuto. Una mostra è un luogo in cui ci si possa ritrovare, l’artista parla di se stesso, ma rappresenta tutti gli altri. Al posto del viso ha uno specchio in cui gli altri possono riconoscersi. C’è naturalmente un aspetto sociale nel mio lavoro, ma non amo parlarne perché spesso la politica pretende di trovare significati, mentre ognuno deve scovare il proprio.

Le opere allestite in spazi differenti si richiamano l’un l’altra. Quali sono gli elementi che le uniscono?
Penso che ogni persona sia unica e molto interessante e che sparisca troppo rapidamente. Tutti noi spariremo. Intorno a noi ci sono individui prodigiosi che hanno tanto da dire, un sapere che svanirà con loro. Gran parte della mia produzione è centrata sul tentativo di salvare quella che definisco la piccola memoria, pur sapendo che è impossibile. Oggi il mio lavoro è sempre più dematerializzato, ho distrutto più dell’80% delle mie opere, ma come per le partiture musicali si possono suonare ancora. Finché sarò vivo potrò risuonarle io, dopo lo faranno gli altri. C’è l’idea che sia l’oggetto a contare, io credo piuttosto che sia la trasmissione attraverso la conoscenza. I miei progetti hanno qualcosa che li avvicina alle leggende, come quello a cui sto lavorando in Patagonia: trombe installate in un luogo remoto dove il vento entrando riproduce ilcanto delle balene. Lo spettatore non vedrà nulla e il suono assumerà un valore leggendario. O ancora, come la raccolta dei battiti del cuore che ho fatto due anni fa anche a Bologna e ora archiviati a Teshima, un posto meraviglioso in Giappone dove battono migliaia di cuori. Per la gente è diventato un luogo di pellegrinaggio, non sanno neppure che è opera mia, ma si recano lì creando un nuovo luogo di mitologia.

Réserve Hamburger Strasse © C. Boltanski
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Due opere in particolare dialogano fra loro: «Volver», la montagna d’oro fatta di teli isotermici e l’installazione nell’ex bunker…
Sul pavimento del bunker ci sono dei vestiti: rimandano ai corpi dei migranti che approdano sulle coste del mediterraneo, e sopra i teli dorati di chi sopravvive agli sbarchi. M’interessa la doppia lettura dell’opera, quella dei migranti che muoiono in mare e delle coperte che rievocano allo stesso tempo il lutto e qualcosa di splendido come l’oro. Un bambino affacciandosi nel bunker potrà dire che il mare è dorato e luccicante, per altri avrà un diverso significato, il mare è una tomba custodita come nelle chiese. Nella grande montagna al Mambo ho onorato i migranti, ma anche le vittime della strage alla stazione di Bologna, sono monumenti di morte, ma non solo. Ognuno deve dare la sua lettura personale.

Ha più volte parlato di Bologna come di una città esistente che ha vissuto molte ferite. C’è anche questo nelle sue opere?
Gli occhi nei pannelli sono quelli dei giusti che ci guardano, non ho voluto nessuna didascalia perché ci si ponga la domanda di chi siano quelle persone e quegli occhi. Chi vorrà scoprirlo saprà che quegli sguardi, dopo la morte, guardano ancora per vedere cosa siamo diventati oggi, sono gli occhi dei partigiani che desiderano sapere cosa abbiamo fatto della loro città. Bologna è molto ricca, borghese, allo stesso tempo ha sempre resistito, è sempre stata di sinistra. Una delle ragioni penso che sia la sua Università, luogo di pensiero e riflessione.

La mostra al Mambo si apre con la scritta «Depart» (inizio) e si chiude con l’arrivo. È il suo viaggio?
È un viaggio nella vita. Ad accogliere il visitatore c’è il battito del cuore, la prima cosa che il neonato sente nel ventre materno, e dopo l’arrivo un video di ciò che accade dopo la morte. Non è il mio viaggio personale, ma il percorso comune a tutta l’umanità.

Che effetto le fa, a distanza di dieci anni, il Museo per la Memoria di Ustica proprio nei giorni dell’anniversario della strage?
Un artista non deve guardare indietro. Il Museo di Ustica non è più mio. È della comunità. Io sono dietro, ora sono con le balene della Patagonia. Ciò che m’interessa di più è che se morissi oggi, penserei alla mia prossima mostra che non avrà mai luogo. Quello che ho voluto dire nel Museo per la Memoria è che quando si muore in maniera così brusca e tragica non si pensa al passato, ma al futuro. Ogni frase registrata è proiettata al futuro, ottimista. L’orrore della morte è che tutti i passeggeri pensavano alle vacanze, alle famiglie. Ancora più terribile è stato per i bambini. Sono tutte vite potenziali rimaste in sospeso. Ora c’è una grande distanza fra me e quel progetto, sono trascorsi dieci anni, la mia vita artistica è altrove. Essere artista è un miracolo che si rinnova ogni volta. Penso che il mio lavoro sia raccontare lo stesso viaggio in maniera diversa a seconda delle età, un viaggio legato ai traumi vissuti in vari periodi della vita. Nell’arco di tutta l’esistenza si parla dello stesso trauma, dello stesso viaggio, ma in modi differenti e oggi che ho un’età importante non vedo quel trauma nello stesso modo. Dieci anni fa non avrei pensato di parlare alle balene che sono la chiave della storia e allora forse per me ora è il momento di chiedermi quale sia la chiave della storia.