Venerdì 23 febbraio il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, diretto da Carolyn Christov-Bakargiev, ha dedicato a Gilberto Zorio (Andorno Micca 1944) un pomeriggio di studio in occasione della sua retrospettiva, curata da Marcella Beccaria, in corso fino al 6 marzo al terzo piano del museo.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1973 Zorio, parlando con Mirella Bandini dello sviluppo della sua ricerca avvenuto tra il 1965 e il 1966, le rivelava: «Il mio problema non era andare avanti o indietro, ma muovermi comunque». Focalizzatosi sull’energia che in quanto tale produce movimento, nel suo lavoro egli ha infatti superato la linearità del tempo e dello spazio, proponendo una degerarchizzazione delle tradizionali concezioni di passato/presente/futuro, memoria/attualità, vicino/lontano, centro/periferia, incidendo notevolmente sull’arte internazionale.
Data l’importanza della sua ricerca, inclusa da Germano Celant nel movimento dell’Arte povera, appare «particolare» che prima d’ora la sua città (Torino) e il suo territorio d’origine (il Piemonte) non gli avesse mai dedicato una mostra personale in un museo pubblico. La retrospettiva al Castello di Rivoli, oltre a costituire un approfondimento del suo percorso, assume pertanto la valenza di un alquanto necessario tributo.
La mostra, realizzata in stretta collaborazione con l’artista, raccoglie circa cinquanta lavori (tra cui dieci disegni) che coprono un cinquantennio di attività a partire dal 1966. Alcuni provengono da importanti istituzioni, collezioni private e gallerie; altri sono presenti nella Collezione del Castello; altri ancora fanno parte della collezione dell’artista.
Chi conosce l’attività di Zorio non si stupirà del fatto che alcuni di questi ultimi fossero da lui custoditi e non esposti da molto tempo. Se per gli artisti è comune prassi esporre con frequenza le proprie opere del passato, Zorio desidera invece lavorare nel presente, con i materiali che, egli sostiene, «ci parlano e dobbiamo ascoltarli».
Anche di fronte al progetto di una retrospettiva di per sé rivolta al passato, non poteva quindi rinunciare a concepire un nuovo lavoro appositamente per il Castello: Canoa otto con, il cui titolo è tratto dal nome degli scafi condotti da otto rematori con un timoniere. Dopo aver sospeso in aria una canoa in legno varata negli anni quaranta e utilizzata per molto tempo per le gare sul Po a Torino, vi ha inserito un compressore collegato a un alambicco che, contenendo acqua e fosforo, ribolle ciclicamente. Come il timoniere ha il compito di dare il ritmo ai rematori, così il compressore detta il ritmo del gorgoglio dell’alambicco.
La canoa sibilante è ricorrente nel lavoro di Zorio e sottende un desiderio di conoscenza realizzabile attraverso il viaggio che, non a caso, corrisponde a uno dei temi affrontati dalla sua retrospettiva. Anziché cronologicamente, la mostra si sviluppa infatti per nuclei tematici, così definiti dalla curatrice: «archeologia del fare, processi chimico-alchemici, canoe e viaggi dell’immaginazione, sculture di suono, dalla scintilla all’energia elettrica» fino all’Internazionale, inno utilizzato per la prima volta nel 1975, che viene diffuso nelle sale del Castello nella versione registrata nel 2015 in Belgio dove l’artista chiese che fosse suonato dal carrillon della Cattedrale di Mechelen.
Fin da bambino Zorio segue il padre, perito edile, nei cantieri: è da questa esperienza che nasce il culto per il lavoro dell’uomo e per materiali, per le loro proprietà fisiche e per la loro storia, a cui è dedicata la prima sala della mostra. Nella sala successiva sono invece raccolte le opere che attestano una profonda conoscenza della chimica e dell’alchimia: Zorio utilizza le capacità di trasformazione innescate da reazioni chimiche di cui prevede un risultato che però non può controllare del tutto divenendo così spettatore privilegiato della sua stessa creazione.
Alla terza sala focalizzata sull’uso del suono quale materiale scultoreo, segue l’ultima sezione dedicata al motivo dell’incandescenza utilizzata per la prima volta nel 1968 in Arco voltaico e veicolata dal 1970 tramite un filo lungo di nichel cromo.
A ritmare il percorso espositivo sono le Torri Stella, strutture dalla pianta stellare costruite con blocchi di Gasbeton, dotate di feritoie e contenenti Pugno fosforescente e È utopia, la realtà, è rivelazione, entrambi del 1971. Le Torri Stella costituiscono un omaggio all’architettura che per Zorio ha sempre connotati antropologici derivando dall’intelligenza e dal lavoro dell’uomo. Le Torri Stella accentuano ancor più tale valenza mediante la forma stellare, ricorrente in numerose opere in mostra e definita dall’artista «l’immagine più diffusa del globo». Conscio di non poterla raggiungere, l’uomo l’ha condotta sulla Terra attribuendole molteplici significati e una forma antropomorfa: l’uomo vitruviano è infatti iscrivibile in una stella.
In realtà l’intera opera di Zorio sembra sottendere un unico tema; quello del viaggio nei materiali e negli archetipi della memoria: se le canoe sono effettivi strumenti di viaggio, i giavellotti, spesso associati alla stella, evocano il «viaggio» di un’arma che viene impugnata e lanciata; se i Microfoni del 1968 veicolano il «viaggio» della voce nello spazio, i fili di nichel cromo permettono il «viaggio» della corrente elettrica, così come le trasfomazioni dei materiali derivano dal «viaggio» dell’energia nella materia. Un viaggio metaforico nonché reale: la trasfomazione degli elementi è effettiva ma al contempo evoca la memoria individuale e collettiva, generando un’osmosi tra il tempo dell’artista e il senza tempo della Storia.
Come il giavellotto più viene portato indietro dalla mano che lo impugna, più andrà lontano una volta lanciato, così il lavoro di Zorio prende lo slancio andando indietro, indagando nella storia del mondo, per proiettare lontano, nel futuro, i suoi miti e archetipi.