Nell’estate del 2010, un universitario ventenne decise di farsi assumere in una piccola fabbrica a Dongguan, uno dei polmoni produttivi del paese e – come Shenzhen e Canton – meta di migranti da tutto il paese. Lo studente lavorò lì come operaio per venticinque giorni, prendendo nota delle sue impressioni in un diario pubblicato la scorsa estate e da poco tradotto in inglese.

A RENDERE ECCEZIONALE la testimonianza non è il fatto che a essere assunto fosse un universitario – in quei mesi la metà della forza lavoro della fabbrica, la XX Industrial Products Limited, era costituita da lavoratori temporanei, molti dei quali studenti – ma che alla base della sua scelta lavorativa ci fosse una strategia e un fine decisamente idealistico, ovvero la mobilitazione della classe operaia. Nei primi anni Dieci, nelle maggiori università cinesi si registrò un certo fermento politico, in particolare per l’attività dei gruppi marxisti.

Dal racconto di un attivista emerge che il processo fu graduale. Inizialmente impegnati perlopiù in progetti di volontariato incentrati sull’educazione e sull’ambiente, alcuni giovani maturarono un interesse per il crescente numero delle controversie del lavoro, soprattutto a sud, finendo per essere coinvolti in azioni pubbliche.

Per loro, inoltre, le condizioni di vita dei lavoratori migranti non erano del tutto irrilevanti, anzi: molti studenti provenivano dalle campagne e avevano passato l’infanzia lontani dai genitori impegnati a lavorare tutto l’anno nelle metropoli cinesi. «Una volta messo piede nelle fabbriche ed entrati in contatto con le vite dei lavoratori, siamo stati in grado di ricollegarci alle nostre radici», scrive l’autore del diario.

GLI STUDENTI MARXISTI non organizzarono soltanto lezioni serali di diritto o attività ricreative per i lavoratori dei campus, ma scelsero di passare i periodi estivi nelle catene di montaggio delle enormi fabbriche nelle periferie cittadine, per comprendere a pieno la condizione dei lavoratori e promuovere la nascita di un movimento operaio. L’autore del diario racconta le difficoltà di instaurare legami seri: le problematicità, anche di natura linguistica, erano infatti legate a un alto tasso di ricambio della forza lavoro.

La resistenza contro le fabbriche sfruttatrici era spesso passiva e nichilista: lo sciopero non era contemplato e il lavoratore scontento preferiva cambiare luogo di lavoro e cercare una soluzione migliore.

MA «NESSUNA LOTTA collettiva può nascere da lamentele collettive», si legge nel diario.
Di motivi per un’azione legale ce ne erano in abbondanza: molti degli operai non erano a conoscenza della propria situazione contrattuale, malgrado la legge preveda che i datori di lavoro debbano informare i lavoratori prima dell’inizio delle attività. Inoltre, le dimissioni erano raramente approvate dalla dirigenza e di conseguenza andarsene implicava perdere un mese di stipendio.

La preziosa testimonianza del diario permette di penetrare e sezionare il «luogo-fabbrica» cinese, spesso narrato come un ambiente monolitico, in cui non è semplice riconoscere le identità dei singoli operai.

Le annotazioni giornaliere parlano di Jun, dello Henan, all’epoca ventiquattrenne. Raccontò di un divorzio alle spalle, di essere frustrato e di rammaricarsi di non essersi impegnato abbastanza a scuola. Avrebbe voluto cambiare lavoro ma non sapeva dove andare. Con lo studente, un altro ragazzo dello Henan, Bao, discusse una sera di buste paga.

LA SUA TARIFFA ORARIA era di quaranta centesimi di dollaro all’ora, sotto il minimo legale di cinquanta centesimi. La decurtazione salariale impropria è un valido motivo per lasciare il lavoro e chiedere un risarcimento, ma gli operai pensavano che rivolgersi alle istituzioni fosse una perdita di tempo. Ming, del Sichuan, credeva che i funzionari locali cospirassero con i padroni delle aziende.

Qualche mese prima dell’arrivo dello studente, nella fabbrica si era verificato uno sciopero contro i salari bassi: il capo, pur permettendo un aumento delle paghe mensili, aveva poi assoldato dei delinquenti per picchiare gli operai coinvolti. Questo genere di soprusi non era affatto raro e i lavoratori sembravano abituati a tollerarlo.

La strategia a cui faceva riferimento l’autore è stata descritta da Zhang Yueran per Made in China Journal. Pianificata dagli studenti marxisti assieme a veterani maoisti che protestavano da anni contro le privatizzazioni – e che si identificavano come Sinistra marxista-leninista-maoista (Marxist-Leninist-Maoist Left, MLML) – prevedeva di inviare in piccole fabbriche note per le cattive condizioni di lavoro ai membri della rete, che tentavano di reclutare colleghi particolarmente entusiasti. Sebbene l’autore del diario non fosse riuscito nell’intento, la strategia sembrò aver raggiunto un certo grado di successo nel caso della Jasic, impianto di saldatura a Shenzhen. Furono gli attivisti in incognito inviati nel 2016, scrive Zhang Yueran, a guidare la lotta di sindacalizzazione nata nell’estate del 2018 che si concluse però con l’arresto di tutti i lavoratori coinvolti.

NEI MESI SUCCESSIVI, le autorità intensificarono i controlli sugli studenti dei gruppi marxisti universitari, alcuni dei quali si erano eccezionalmente diretti sul luogo della Jasic in supporto ai lavoratori. Malgrado lo spazio per sforzi di questo tipo si sia oramai considerevolmente ridotto, a causa della mancanza di azione sul campo, ci sono nuove problematiche che possono attirare l’attenzione di giovani e studenti, in particolar modo inerenti alle nuove categorie che necessitano di essere comprese e tutelate, come ad esempio la manodopera sfruttata dall’economia delle piattaforme.

Il diario termina con una riflessione: studenti e lavoratori non sono poi così diversi, poiché «la fabbrica produce prodotti della stessa qualità, mentre l’università produce lo stesso tipo di laureati. Sia gli studenti che i lavoratori non sanno cosa riserva loro il futuro».