Ancora una volta era sembrato che l’accordo tra Ue e Grecia si potesse fare, raggiungendo così l’obbiettivo di chiudere la battaglia iniziata con la vittoria di Syriza nel gennaio 2015, nonostante l’obbiettivo vero delle autorità europee sia sempre stato l’estromissione di Syriza dal governo. In questi mesi, infatti, quasi mai la posta in gioco dello scontro ha coinciso con le misure discusse. Bensì, da parte europea, ottenere l’adesione alla filosofia del Memorandum. Ma questa sottomissione al Memorandum che l’Eurogruppo voleva non c’è mai stata.

Le «Istituzioni», via via sempre più irritate dalla tattica negoziale di Tsipras, prima attaccarono violentemente Varoufakis per espellerlo dalla trattativa, e poi lanciarono l’ultimatum al governo greco dopo la riunione «segreta» dei quattro (Commissione, Bce, Fmi e Eurogruppo).

A questa richiesta fu risposto no, con durezza, e le trattative ricominciarono. Ma nonostante le differenze nelle misure da adottare si riducessero, appariva chiara la volontà dell’Eurogruppo di accettare solo una resa completa della Grecia.

E crebbero le manovre europee in Grecia per arrivare a una sostituzione del governo di Syriza con uno di unità nazionale. A questo Tsipras rispose col referendum, considerato dagli europei una mossa talmente ostile da dichiarare, sia prima che subito dopo, che il referendum rendeva impossibile la riapertura delle trattative.

Tutti sappiamo che la trattativa si è riaperta solo per l’esito quasi plebiscitario del referendum, e per l’intervento pesante degli Stati Uniti. Dopo il referendum e l’evidenza dei calcoli politici sbagliati, gli Usa hanno ricordato bruscamente agli europei che i vincoli geostrategici non potevano essere un optional subordinato agli obbiettivi politici intra-europei.

Rispetto a questo punto va valutata accuratamente la posta in gioco in questo momento. Che non può che essere che la sopravvivenza del governo di Syriza come obbiettivo assolutamente prioritario. Evidentemente nel lato europeo sta prendendo di nuovo piede la posizione esattamente opposta: che sia assolutamente prioritario invece liberarsi di questo governo; e, in subordine, se questo non fosse possibile, liberarsi della Grecia nell’euro, precipitandola in un caos che comunque sia di monito a chiunque volesse seguire quella via.

Solo così si spiega, infatti, la riapertura violenta dei giochi che sembravano tacitati dall’intervento americano. Evidentemente pesano due motivazioni entrambe vitali per la dirigenza tedesca. La prima che questa rottura «politica» della disciplina dell’austerità era comunque inaccettabile per il contagio che avrebbe potuto provocare, indipendentemente dal contenuto delle misure contenute negli accordi. Ma c’è un secondo lato, fin qui in ombra, che sta venendo in luce. Ed è la stessa stabilità politica tedesca.

È evidente, infatti, che Schäuble sta giocando pesantemente sulla assoluta ostilità dell’opinione pubblica tedesca nei confronti di un qualsiasi accordo con la Grecia, che smuove strati profondi di disprezzo verso il Sud d’Europa. L’incertezza della Merkel nel dare corso alle richieste americane di tener conto degli aspetti geostrategici che l’esito negativo dell’accordo implicherebbe, pare quindi dovuto al timore che questa opinione pubblica, da lei stessa aizzata fino al parossismo, possa reagire violentemente, destabilizzando tutto il quadro politico tedesco.

Non sarebbe più allora il pericolo di formazioni populiste a preoccuparla, ma che forse la stessa Csu bavarese di Schäuble possa scendere sul piede di guerra.

Equilibri tedeschi contro equilibri europei e geostrategici mondiali. Questa è la partita tremenda che si sta giocando. Syriza deve morire, è l’urlo della destra tedesca, e europea.

Che chiarisce anche ai più tardi qual è la posta in gioco. Non certo le percentuali dell’accordo. Ma il potere in Europa. Che, per la prima volta, da Maastricht in poi, è stato messo in discussione dalla formazione politica di un piccolo paese di grande coraggio. Chapeau.